Esteri

Taiwan

L’escalation di provocazioni è di Pechino. E il problema è la debolezza di Biden

È Xi Jinping che sta tentando di cambiare lo status quo su Taiwan: provocazioni militari moltiplicate e volontà dichiarata di prendersi l’isola con la forza

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Cos’è più pericoloso? La presidente della Camera Usa che si reca in visita a Taiwan, o i cinesi che minacciano la guerra contro l’isola “ribelle” da tutto l’anno?

Una persona completamente a digiuno di questioni internazionali, direbbe che tutto il pericolo viene da Nancy Pelosi, che ha avuto l’idea, coraggiosa in questo caso, di recarsi in visita in un Paese alleato degli Usa, anche se non riconosciuto diplomaticamente e minacciato costantemente di distruzione dal colosso comunista cinese.

Dal settembre scorso, infatti, le esercitazioni cinesi e le provocazioni militari (sorvoli con aerei da caccia, da guerra elettronica e bombardieri) si sono moltiplicate, con punte massime a settembre 2021 e a gennaio 2022. Scambiare un gesto di solidarietà con una “provocazione” è tipico di un regime totalitario.

I fatti dietro la crisi

Mettendo in ordine gli elementi di questa crisi: Taiwan non è un Paese riconosciuto da Washington. Gli Usa, fino al 1979, avevano rapporti diplomatici con il governo di Taipei, ultimo residuo del regime nazionalista di Chiang Kai-shek (sconfitto dai comunisti di Mao nel 1949) e non con quello di Pechino, considerando il primo come unico rappresentante legittimo di tutti i cinesi.

Fino al 1979, se il regime comunista (illegittimo, agli occhi degli statunitensi) avesse provato a invadere l’isola di Taiwan, gli Usa sarebbero intervenuti automaticamente. Dopo il 1979, gli Usa hanno trasferito la loro ambasciata a Pechino e, otto anni dopo l’Onu, hanno iniziato a considerare il regime comunista come unico governo legittimo di tutti i cinesi, Taiwan inclusa.

Tuttavia, più ancora che per la restituzione di Hong Kong da parte degli inglesi, gli americani hanno preteso che la Cina rispettasse, almeno di fatto, la sostanziale indipendenza di Taiwan e non interferissero nel suo sistema politico interno.

Come garanzia (debole, sul piano legale) una legge statunitense prescrive l’invio di aiuti militari al governo di Taipei, anche se non l’obbligo di intervenire militarmente in sua difesa, in caso di aggressione da parte di Pechino.

Dal punto di vista cinese, Taiwan è una “provincia ribelle” che prima o poi sarà riassorbita dal regime comunista, con le buone o con le cattive. Il momento del suo riassorbimento potrebbe essere molto vicino, stando a ricorrenti discorsi di Xi Jinping.

Se c’è qualcuno che sta tentando di cambiare lo status quo, violando i patti, questo è Pechino, che da tempo ha abbandonato la decennale retorica della riunificazione pacifica e da anni, ormai, manda segnali chiari della sua volontà di prendersi Taiwan con la forza.

Le crisi precedenti

Le crisi fra Cina e Taiwan (o meglio: fra la Cina comunista e quella democratica) sono ricorrenti. La più recente e grave, dopo il riconoscimento americano di Pechino, è scoppiata nel 1995, quando l’allora presidente di Taiwan si recò in visita negli Usa, per un discorso da tenere alla Cornell University.

Allora l’amministrazione Clinton decise di inviare due gruppi di portaerei nel Mar Cinese meridionale per far capire al presidente Jiang Zemin che gli americani avrebbero potuto difendere Taiwan anche con la forza, se necessario.

Nel 1997, come in questi giorni, una delegazione della Camera, guidata dal repubblicano Newt Gingrich, si recò in visita a Taipei, per solidarietà. I cinesi protestarono anche allora, ma non compirono atti sconsiderati.

In gioco la credibilità Usa

Su Taiwan si gioca gran parte della credibilità degli Stati Uniti in Asia. Repubblicani o Democratici, i presidenti e i membri del Congresso, in modo assolutamente bipartisan, hanno preso l’impegno di proteggere l’ultimo angolo democratico di Cina dalle mire del regime comunista.

Anche in questo caso, la visita di Nancy Pelosi è stata bipartisan. La presidente democratica della Camera ha ricevuto il plauso anche della Caucus per Taiwan al Congresso, guidato da un Repubblicano, Steve Chabot.

La logica della politica interna

Purtroppo però viviamo in tempi di amministrazione debole e forte polarizzazione e questo rovina anche le cause più sacrosante. E così, sul fronte repubblicano, abbiamo un Donald Trump che non sa mettere da parte il suo astio per la donna politica che ha tentato due impeachment nei suoi confronti. “Il problema della Cina è l’ultima cosa in cui dovrebbe essere coinvolta – non farà altro che peggiorarlo”, ha detto l’ex presidente, aggiungendo che: “ogni cosa che (la Pelosi, ndr) tocca viene trasformata in caos, disagio e schifo”.

Il commento di Trump sta facendo proseliti in tutta la destra, anche in Europa, e infatti leggiamo da insospettabili fonti anticomuniste commenti sferzanti sul viaggio della Pelosi a Taiwan, vista quasi come un casus belli con la Cina.

Non si esce dalla logica della politica interna. Se c’è un Dem al comando, i conservatori o sedicenti tali darebbero ragione anche alla Cina comunista. Lo si è visto con la guerra in Ucraina: è soprattutto a destra che si considera l’azione dell’amministrazione Biden come “innesco” del conflitto, in un plateale ribaltamento di responsabilità.

Anche in quel caso, è la Russia che ha invaso, l’amministrazione Biden, al massimo, condanna l’aggressore e manda armi all’aggredito, pur senza intervenire. Però è “colpa sua” a prescindere, perché “ha abbaiato ai confini della Russia”, a parole e nemmeno coi fatti.

La debolezza di Biden

Su Taiwan si sta già precostituendo l’armamentario retorico anti-Dem da parte della destra e antiamericano da parte della sinistra. Perché gli antiamericani di professione sono sempre pronti a identificare una causa qualunque, anche una visita informale, per poter dire ancora “se c’è una guerra, è colpa degli Usa”. Lo direbbero, probabilmente, anche in caso di invasione aliena.

Ma lo possono fare solo perché la presidenza è molto debole, troppo debole. Dall’altra parte, infatti, c’è un presidente debolissimo che, lungi dall’abbaiare ai confini della Cina, alla vigilia del viaggio (annunciato, anche se teoricamente “a sorpresa”) ha tenuto a precisare che secondo il Pentagono “non è il momento giusto” per una visita a Taiwan, come se fosse un qualsiasi sito di “viaggiare sicuri”.

È un atteggiamento che finisce per confermare i sospetti degli antiamericani, un appiglio per poter permettere loro di dire “anche il presidente stesso aveva avvertito che…”.

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