Ogni anno, tra aprile e maggio, nel mondo ebraico si festeggia seguendo il calendario ebraico Yom HaAtzmaut (“Il Giorno dell’Indipendenza” in ebraico), per ricordare l’anniversario della fondazione di Israele, avvenuta il 14 maggio 1948 per il calendario gregoriano.
Tuttavia, quello che per gli ebrei è il giorno in cui hanno ottenuto un loro Stato dopo quasi due millenni, da anni viene sempre più osteggiato dalle sinistre radicali in favore di un altro anniversario: la cosiddetta Nakba (“Catastrofe” in arabo), termine con cui i palestinesi ricordano la loro sconfitta nella Guerra d’Indipendenza d’Israele.
Ciò viene fatto per cercare di delegittimare l’esistenza stessa d’Israele, a detta dei filopalestinesi macchiata da una sorta di “peccato originale”. Tuttavia, gli stessi che ogni anno ricordano la Nakba, di solito tendono a dimenticare un altro esodo: quello degli ebrei che, soprattutto tra gli anni ’50 e ’60, furono costretti a lasciare i Paesi arabi, dove in molti casi vivevano da prima ancora che nascesse l’islam. A questi, dal 1979, si aggiunsero anche gli ebrei in fuga dall’Iran, dove si sentirono minacciati dopo la Rivoluzione Islamica.
Storia dell’esodo
Per ricordare questo esodo, dal 2014 la Knesset, il Parlamento israeliano, ha istituito un giorno di commemorazione il 30 novembre. La scelta della data è dovuta al fatto che il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu approvava il piano di spartizione della Palestina in uno Stato ebraico e uno arabo. Dal giorno successivo, in molti Paesi arabi iniziarono le violenze contro le comunità ebraiche.
Negli anni successivi alla nascita d’Israele, avvennero vere e proprie espulsioni di massa dal Medio Oriente e dal Nordafrica, sobillate dai nazionalisti arabi. Alle espulsioni dall’Egitto di Nasser negli anni ’50, si aggiunsero in breve tempo quelle dall’Algeria e dalla Tunisia, quando si resero indipendenti dalla Francia. E nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, furono gli ebrei di Libia che dovettero lasciare in massa il Paese a causa degli attacchi di folle inferocite, che saccheggiarono le loro case e sinagoghe.
In molti di questi casi, queste persecuzioni furono precedute dall’entrata in vigore di leggi discriminatorie verso gli ebrei: in Tunisia, nel 1957 venne fatto sciogliere il tribunale rabbinico, e un anno dopo anche i consigli delle comunità ebraiche. Ad Aleppo, dove gli ebrei vivevano da 2.500 anni, nel 1947 folle inferocite distrussero più di 200 tra case, negozi e sinagoghe. E in Marocco, nel 1948 venne promosso un boicottaggio economico verso le attività gestite da ebrei. In seguito, in tutti questi Paesi i regimi al potere confiscarono le proprietà degli ebrei fuggiti.
In Iraq, la persecuzione fu particolarmente brutale, soprattutto dopo la Guerra dei Sei Giorni; il 27 gennaio 1969, furono impiccati nella pubblica piazza di Baghdad 14 iracheni, 9 dei quali erano ebrei, con l’accusa di essere spie d’Israele. In tale occasione, Radio Baghdad invitò la popolazione a venire in piazza per “godersi il banchetto”. Giunsero circa 500.000 persone, che festeggiarono e ballarono intorno ai corpi degli impiccati.
I numeri
Nel complesso, secondo i dati della Jewish Virtual Library, se circa 851.000 ebrei vivevano nei Paesi arabi nel 1948, nel 2018 ne erano rimasti appena 3.300. Guardando ai singoli Paesi, in Egitto si è passati dai 75.000 del 1948 a poche decine nel 2018; in Libia se ne contavano 38.000 nel ’48, mentre oggi non è rimasto nessuno; in Iraq erano 135.000, mentre nel 2008 se ne contavano solo sette in tutto; in Algeria erano 140.000, mentre oggi si stima che non ne siano rimaste più di poche decine; in Yemen, erano 63.000 nel 1948, mentre oggi risulta esserne rimasto uno solo in tutto il Paese, Levi Marhabi. Lo stesso Marhabi, nel settembre 2023 risultava essere tenuto in ostaggio da ormai sette anni dai terroristi sciiti Houthi.
Gli unici due Paesi arabi che ospitano ancora oggi comunità ebraiche abbastanza numerose sono il Marocco e la Tunisia, che nel 2018 ne ospitavano rispettivamente 2.150 e 1.050. Ma sono comunque numeri di gran lunga inferiori a quelli del 1948, quando erano 265.000 in Marocco e 105.000 in Tunisia.
In Iran, si è passati dai 100.000 ebrei del 1948 ai 9.200 del 2022. Se da un lato qui gli ebrei sono più tollerati che nel mondo arabo, dall’altro lato vivono costantemente sorvegliati dalle autorità, che in passato hanno impiccato quelli che venivano accusati di connivenza con Israele.
L’esodo in Italia
Durante l’esodo dalla Libia nel ’67, furono circa 6.000 i profughi ebrei tripolini accolti a Roma, dei quali circa 3.000 misero radici nella capitale. Stesso dicasi per Milano, che ha accolto numerosi esuli provenienti dal mondo islamico: ebrei egiziani, siriani, libanesi, turchi, persiani (questi ultimi si identificano ancora oggi con questo termine, non come iraniani), che dopo le difficoltà iniziali si sono sempre più integrati nel tessuto sociale italiano.
In diversi casi, gli esuli e i loro discendenti sono diventati i leader politici e religiosi delle loro comunità: oggi sia il presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, che il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, sono di origini tripoline. Così come è nato a Tripoli Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano.
Confronto con gli arabi israeliani
Se in tutti i Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente, all’infuori di Israele, la popolazione ebraica è drasticamente diminuita o è scomparsa del tutto, a non essere diminuita affatto è la popolazione degli arabi palestinesi che vivono in Israele: nel 1948, erano 156.000 gli arabi che vivevano nello Stato ebraico, e nel 2022 erano saliti a 2 milioni, il 21 per cento di tutta la popolazione israeliana.
Anche le loro condizioni sanitarie e la qualità della vita sono migliorate, superando quelle degli arabi nei Paesi confinanti: se nel 1970 la mortalità infantile tra gli arabi in Israele era di 32 morti ogni 1.000 nuovi nati, nel 1999 era scesa a 9 morti ogni 1.000 nati, contro i 41 bambini morti ogni 1.000 nuovi nati in Egitto. E secondo un sondaggio pubblicato nel novembre 2017 dal think tank tedesco Konrad-Adenauer-Stiftung, il 60 per cento dei cittadini arabi aveva un’opinione positiva delle istituzioni israeliane.
Le radici dell’odio
A questo punto, occorre spiegare che cosa ha spinto la maggioranza degli arabi ad odiare non solo gli ebrei israeliani, ma anche quelli che vivevano nelle loro terre da innumerevoli generazioni. In passato, c’è stato chi ha cercato di addossare la colpa di questo odio ad Israele, “reo” di aver interrotto una convivenza pacifica tra ebrei e musulmani che durava da secoli.
In realtà, le cose stanno diversamente: come ha spiegato lo studioso Vittorio Robiati Bendaud nel suo libro del 2018 “La stella e la mezzaluna”, in quei territori gli ebrei ebbero sempre uno status sociale inferiore a quello dei musulmani. Per fare degli esempi, gli ebrei non potevano frequentare i bagni pubblici, e non potevano essere puniti per mezzo di una spada come i musulmani, al fine di evitare che il loro sangue “impuro” sporcasse la lama. E nel 1066 a Granada, quando la Spagna era dominata dagli arabi, questi fecero un pogrom in cui furono massacrate 1.200 famiglie ebraiche.
Questa condizione di subalternità è finita con l’arrivo del colonialismo europeo, portò gli ebrei ad avere gli stessi diritti dei musulmani. Ciò spiega l’odio islamista di oggi verso gli ebrei e Israele: non accettano che chi per secoli è stato inferiore a loro nella gerarchia sociale, oggi possa essere un loro pari.