L’Europa ha paura: Macron suona la sveglia, ma è troppo tardi?

Ancora sotto shock per l’elezione di Trump. Mea culpa di Macron: gli americani fanno bene a badare ai loro interessi, il problema è che noi europei siamo diventati erbivori

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Nella seconda parte della settimana appena conclusa è andato in scena il grande meeting dei leader europei organizzato a Budapest da Viktor Orban, nell’ambito del semestre di presidenza ungherese della Ue. Il primo ministro magiaro ha fatto le cose in grande, aprendo con una riunione plenaria all’interno del nuovo Stadio Puskas, poi con una cena nelle sale del parlamento, in riva al Danubio.

Soprattutto, Orban ha preso al balzo la palla fornitagli dalle elezioni americane, i cui risultati sono arrivati in Europa proprio mentre a Budapest si aprivano i lavori, e si è proposto come “portavoce” europeo del nuovo vento che soffia dall’altra sponda dell’Atlantico, ribadendo che la guerra in Ucraina va chiusa al più presto, al costo di rinunciare ai territori occupati dai russi.  

Che il vento sia cambiato lo testimonia il fatto che lo stesso Volodymyr Zelenskyy abbia incontrato per la prima volta il leader europeo da sempre più ostile alla causa ucraina. Il presidente ucraino ha palesato i suoi timori all’assemblea, ma ha ricevuto delle rassicurazioni alquanto tiepide. La realtà, come lui stesso ha riconosciuto il suo intervento, è che nessuno sa bene cosa aspettarsi in politica estera dalla seconda presidenza Trump, ed è proprio questo lo spettro che si è aggirato tra i leader dell’Europa per tutto il tempo.

Europa vaso di coccio

Sì, la realtà è che l’Europa ha paura: paura di un ammorbidimento americano verso Mosca, paura di una nuova guerra commerciale, paura di restare sola a portare avanti il Green Deal – insomma, paura di tutto ciò che non sia il mantenimento dello status quo. Il problema vero, il problema profondo e più grave, è che l’Europa ha paura perché si è resa conto che ormai rappresenta il manzoniano vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.

Ed è stato Emmanuel Macron, l’unico leader convintamente europeista rimasto in sella – dato che proprio mentre a Budapest si parlava, a Berlino si consumava la crisi di governo – ad avere il coraggio di dirlo ad alta voce. E non solo ai suoi colleghi, ma a tutta Europa e al mondo: ha infatti scelto di trasmettere in streaming il suo intervento e di condividerlo sul suo account X (già Twitter). Una scelta teatrale, se vogliamo, un modo per riprendere in mano il pallino, togliendolo a Orban, una via per scuotere un establishment che pare disorientato dal “colpo” Trump, ormai pericolosamente vicino ad andare al tappeto.

Macron è andato dritto al punto, esplicitando la paura che tutti hanno, ma anziché piangersi addosso o continuare ad accusare gli americani di “non aver capito” o di “averci tradito” ha scelto di essere realista e intellettualmente onesto. “Non è compito nostro stare qui a commentare il risultato elettorale americano” ha detto, “né sentenziare se sia un bene o un male”. Perché la realtà, l’unica che ci debba interessare, è che “Donald Trump è stato eletto dagli americani e difenderà gli interessi degli americani”.

Macron si è poi spinto ad ammettere che questo sia legittimo, sia la norma: tutti badano ai propri interessi. Almeno, quasi tutti. “La domanda è”, ha proseguito infatti provocatoriamente Macron, “noi invece siamo preparati a difendere gli interessi degli europei?”.

La realtà che abbiamo davanti agli occhi ci dice che oggi non siamo pronti. Ci dice che “siamo diventati erbivori” in un mondo di “carnivori”, e che se non cambiamo il nostro destino sarà segnato: l’Europa sarà una sorta di grande buffet, una mandria di manzi lasciata alla mercé dei predatori. Una prospettiva ben poco confortante, ma se pensiamo che finora, di fronte ai ripetuti fallimenti delle politiche comunitarie, il mantra di Bruxelles altro non era che una reiterazione del fideistico “andrà tutto bene” di contiana tradizione, è un passo avanti notevole.

L’eredità merkeliana

Macron non è nuovo a esternazioni critiche nei confronti del modo in cui la Commissione von der Leyen ha indirizzato l’Unione europea, ma alla prova dei fatti non è finita riuscito a imprimere un cambiamento. Nel 2019, era ancora ben salda la guida tedesca, e la scelta di Ursula VdL fu un esplicitare la continuazione del programma di Angela Merkel.

I due terremoti della pandemia e della guerra hanno evidenziato in modo spietato i limiti e le storture di tale visione, dalla dipendenza energetica dalla Russia alla totale inconsistenza della posizione di “soft power”, eppure non è bastato a scalfire quella posizione di predominio dell’eredità merkeliana.

Cambio di marcia

A Budapest, Macron non si è diffuso a elencare i motivi della debacle europea, tanto erano lì sul tavolo, per così dire – in bella vista. Ciò che ha sottolineato è il risultato finale: mentre Stati Uniti e Cina sono potenze militari e tecnologiche che spingono verso l’innovazione, noi siamo ridotti a essere solo “clienti”: acquirenti sempre meno abbienti di prodotti ideati e costruiti da altri. Noi non innoviamo, noi regolamentiamo, limitiamo, burocratizziamo, o peggio dismettiamo, come il nucleare e l’industria dell’auto.

Posta così sembra quasi una messa da requiem, ma Emmanuel Macron è parso animato da uno spirito combattivo che depone in favore dell’idea cardine del suo intervento: forse è vero che siamo ancora in tempo, ma il tempo non gioca a nostro favore.

L’Unione europea, coi 450 milioni di abitanti e i 20 trilioni di Pil del suo spazio economico ha ancora la possibilità di essere un giocatore sullo scacchiere mondiale, ma deve cambiare marcia adesso. Deve tornare a essere un ideatore, un creatore, un innovatore e produttore, non solo un consumatore. Deve investire in ricerca e in difesa, deve armarsi per essere in grado, se non di attaccare, di assicurarsi una difesa autonoma. Macron, continuando la metafora, afferma che dobbiamo sforzarci di diventare almeno onnivori, se vogliamo sopravvivere.

Il rapporto con gli Usa di Trump

Questo vuol dire per lui anche “abbandonare un atlantismo naïve” e prepararsi a vedere gli Usa come concorrenti più che come amici, e qui probabilmente si consuma il distacco ideologico con il mondo anglosassone che da sempre caratterizza la Francia, e che già con De Gaulle si era concretizzato addirittura nell’uscita di Parigi dalla Nato. Nonostante tutto, chi scrive non crede che il nostro futuro potrà mai essere sconnesso da quello americano o addirittura a esso in contrapposizione, ma auspicare una maggiore autonomia è sacrosanto – inteso come un voler passare da essere dipendenti ad autosufficienti.

Non è possibile che un blocco economico, demografico e dotato di armi nucleari come la Ue sia terrorizzato all’idea che gli Stati Uniti possano spendere un po’ meno per la nostra difesa, che badino un po’ di più ai loro interessi e meno ai nostri. Questo status per noi europei non significa davvero essere amici, quanto essere parassiti, e se dalla nuova amministrazione Trump verrà una strigliata che ci costringerà a rimettere la testa sulle spalle, tanto meglio.

Il fattore VDL

Certo, resta la grande incognita della guerra in Ucraina, resta la volontà delle forze di destra (e sinistra) filorusse di sfruttare la situazione per premere ancora di più verso l’implosione del blocco in favore di un cosmo di singoli stati all’insegna dell’ognun per sé e Dio per tutti, ma resta anche il totale immobilismo della Commissione.

Il destinatario delle critiche di Macron, la presidente Ursula von der Leyen, ha infatti finora fatto orecchie da mercante, tirando dritto lungo il solco già tracciato: stessa maggioranza, stessa presenza catastrofica dei Verdi, stessa enfasi sulla decarbonizzazione a tutti i costi. Anzi, sulla scia del brutto risultato dei macroniani alle elezioni legislative francesi, Ursula VdL ha subito consumato una sua notte dei lunghi coltelli silurando Thierry Breton, commissario uscente al mercato interno e uomo di Macron, per caricare a testa ancora più bassa nella direzione già decisa.

Tuttavia, Macron ha ragione, e Ursula dovrà prima o poi prenderne atto: se vogliamo avere una speranza di giocarci il nostro futuro, dobbiamo liberarci di tanti lacci che ci siamo autoimposti, e scegliere di puntare con decisione sulla crescita – quella vera – sull’innovazione e sulla creazione di una nuova capacità di difesa. O questo, o il destino da vittime sacrificali, del vaso di coccio, dell’erbivoro tra i predatori.

Per l’Europa, il tempo dei sogni di essere una “soft power” è finito: o avremo la capacità di essere una potenza vera, o saremo in balia della sorte e delle potenze esterne, sempre a pregare per la loro benevolenza e a tremare di fronte a ogni loro possibile mutamento di sentimenti.

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