Il 24 maggio il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha rilasciato un’intervista a The Economist nella quale ha espresso la sua opinione circa la necessità che venissero semplificate le regole circa l’utilizzo delle armi occidentali in Ucraina. In altri termini, ha invitato gli alleati della Nato che forniscono armi all’Ucraina a porre fine al divieto di utilizzarle per colpire obiettivi militari in Russia.
Perché il politico laburista norvegese, il cui mandato decennale sta per scadere, ha esternato questo suo pensiero? I commentatori del settimanale britannico hanno rilevato che i segretari generali della Nato normalmente non attaccano le politiche del Paese membro più grande e importante dell’alleanza, come non lo farebbe il ceo di una impresa verso l’azionista di maggioranza. Eppure, l’obiettivo chiaro, anche se senza nome, di Stoltenberg era la politica portata avanti da Joe Biden, il presidente americano, di controllare ciò che l’Ucraina può e non può attaccare con i sistemi forniti dagli americani.
Domenica 26, quasi a voler affinare il tiro, il segretario della Nato ha insistito sulla sua linea in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt, chiedendo all’Occidente di intensificare l’invio di armi e munizioni a Kiev, “compresi sistemi antiaerei e armi a lungo raggio“. E ha allontanato qualsiasi ipotesi di negoziato: “Una politica di pacificazione nei confronti di Putin non funzionerà”. Concetto ribadito anche dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen in un’intervista alla tv Deutschlandfunk: “Chi parla e si comporta come Putin non vuole la pace, ma andrà avanti. Ed è per questo che è così importante sostenere costantemente l’Ucraina e rafforzare la nostra capacità di difesa, perché se dobbiamo mantenere la pace nel nostro continente, allora dobbiamo investire nella difesa”.
Le posizioni degli Alleati
Questo invito non ha lasciato indifferenti né i Paesi aderenti all’Alleanza, né Mosca. Semplice e diretta la risposta del Cremlino, nel suo stile abituale: un raid, effettuato con due bombe planari di epoca sovietica modernizzate, su un megastore di Kharkiv. Molto più complesse e distinte le reazioni occidentali, proprio mentre si dissotterravano le vittime dell’attacco russo.
Volitivo il comportamento del Regno Unito. Il ministro degli esteri britannico, David Cameron, anche nella recente visita a Kiev, ha affermato che spetta all’Ucraina decidere sull’uso delle armi britanniche contro la Russia. Eguale posizioni emergono dai Paesi baltici, dalla Polonia e dalla Svezia. Se il ministro della difesa Pal Jonsson ha sottolineato il diritto dell’Ucraina alla difesa secondo il diritto internazionale, il ministro degli esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, ha dichiarato a Bruxelles che limitando eccessivamente l’uso delle armi rischiamo di perdere il controllo della situazione. Oltre a ciò, il governo di Vilnius ha aspramente criticato il veto ungherese a nuove sanzioni europee alla Russia.
Molto più prudente la posizione tedesca. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ribadito la contrarietà all’uso delle armi tedesche per attacchi in Russia, sostenendo l’importanza di rispettare le regole concordate. “Abbiamo concordato regole chiare con l’Ucraina per le consegne di armi effettuate finora. E funzionano. Almeno questa è la mia teoria”. Il caso tedesco è di scuola. Berlino ha già fornito il lanciarazzi Mars II, con ha una gittata di oltre 80 chilometri, quindi, non in grado di colpire il territorio russo, se non sulla estrema linea di confine, ma si è rifiutata di inviare i Taurus, che arrivano a 500.
Parigi – un po’ velleitaria come sempre – dopo che Emmanuel Macron aveva ipotizzato l’invio di truppe in Ucraina, senza che la sua affermazione avesse suscitato alcun entusiasmo da parte dei partner maggiori, ha dovuto frenare la sua decisione di inviare istruttori in Ucraina, proprio per l’opposizione di Stoltenberg.
È chiaro a tutti che sono gli Stati Uniti a dare le carte. Al momento la posizione di Washington è prudente e un suo placet all’uso delle armi Nato su suolo russo – se avverrà – passerà tramite un silenzio assenso. Con queste parole si è espresso Charles Kupchan, esperto di politica estera del Council on Foreign Relations ed ex consigliere di Obama per gli affari europei. Biden è consapevole che Kyiv si sta difendendo con una mano legata dietro la schiena, ma ufficialmente non vuole dare il via ad alcuna escalation.
Italia levantina
L’Italia – come sempre – è levantina nelle sue posizioni. Il ministro Guido Crosetto, da sempre deciso a sostenere l’Ucraina, di fronte alla proposta Stoltenberg ha commentato “è un’opinione legittima, ma ritengo sbagliato aumentare la tensione già drammatica”. Il ministro della Difesa ha poi aggiunto: “L’aiuto all’Ucraina serve a evitare la terza guerra mondiale, ma deve lasciare aperto lo spazio a una tregua“.
Sulla stessa linea la premier Giorgia Meloni, secondo cui l’Italia e la Nato devono “essere molto prudenti”, pur mantenendo il supporto all’Ucraina. In egual modo si è espresso il ministro degli esteri Antonio Tajani, evocando i limiti fissati dalla nostra Costituzione. Ruvido, come sempre, Matteo Salvini all’indirizzo di Stoltenberg: “questo signore o chiede scusa, o rettifica o si dimette”.
Il fronte interno
Tirando le somme l’Europa, ed in generale l’Occidente, si dimostra tutt’altro che compatta nelle modalità di sostenere Kyiv. Il momento è particolare: sono imminenti le elezioni europee ed in ogni Paese esistono fazioni o liste che pongono al centro del loro programma la cessazione del sostegno all’Ucraina, con la scusa del primato della pace e della diplomazia. La storia è vecchia. Quanto male fecero agli alleati, nei primi anni dell’ultimo conflitto mondiale, i vari “fronti interni” pacifisti, pilotati da Mosca, allora alleata de facto con la Germania.
Non si vuol dire che tutte queste voci siano, adesso, al soldo di Putin, non vi è prova per asserire questo, ma che esse fungano da “utili idioti” funzionali ad indebolire il fronte è certo. È ovvio che l’opinione pubblica sia fragile e irrazionale di fronte alla collaudata propaganda – diretta ed indiretta – russa, fatta di vittimismo e minacce di olocausto nucleare (una sorta di chiagni e fotti al sapore di boršč). Deve, però, essere compreso che da oltre due anni la Russia effettua attacchi su infrastrutture civili, lontane dalla linea del fronte, che lei ha violato, al solo fine di fiaccare lo spirito di resistenza, continuando, però a difendersi da presunte minacce esterne a dispetto della politica, della storia e della geografia.
Le bombe russe
È così scandalosa e fuori di senno la proposta di Stoltenberg? Un semplice ragionamento. Allo stato attuale, ed il bombardamento del centro commerciale di Kharkiv lo dimostra, le forze russe stanno utilizzando in modo massiccio delle bombe planari. Il sito polacco military.news segnala che da più di un anno la Russia sgancia bombe dell’era sovietica dotate di ali in modo che possano planare sopra le linee del fronte per colpire obiettivi. Ciò consente ai caccia russi di evitare di avvicinarsi troppo agli avanzati sistemi di difesa aerea occidentali in uso agli ucraini, offrendo un’alternativa economicamente vantaggiosa al missile/bomba Grom-E1, che è entrato in azione anche in Ucraina nel marzo 2023, ma che è costoso e prodotto in numeri ancora limitati.
Le “bombe plananti” a corto raggio erano state precedentemente utilizzate su obiettivi militari per aiutare la Russia a ottenere guadagni in prima linea. Ma le versioni a lungo raggio, come l’UMPB D-30 sparato contro Kharkiv, stanno ora colpendo i civili. Esse hanno un diametro di 30 cm e possono essere lanciate non solo da aerei ma anche da sistemi di razzi a lancio multiplo Tornado-S. Queste armi hanno un raggio di 40-60 km. Ora si noti che Kharkiv dista dal confine solo 40 km.
Ne consegue che i russi – stante il divieto di utilizzare armi Nato su territorio russo – possono sparare indisturbati da casa loro (cosa che ritengono un assoluto diritto), senza che l’attaccato possa agire sulle rampe di partenza delle armi o sul vettore originario. Allora si abbia l’onestà di dire: “che l’Ucraina si arrangi da sola!”. In alternativa si deve concedere che si fuoriesca dalla logica dei sistemi di difesa passivi, utili, ma insufficienti a smorzare una minaccia massiccia, a favore di una difesa attiva.
La storia di ogni conflitto insegna che il nemico deve essere affrontato in profondità, non per azioni terroristiche sui civili – come stanno facendo i russi – ma per contrastare l’apparato logistico, che è la vera spina dorsale di una forza militare sul campo. Forse non ci vuole molto a capirlo, ma occorre coraggio a mettere in pratica questo principio.
Quali prospettive di pace?
Si dice: “ma le prospettive di pace? Putin ha espresso il desiderio di intavolare trattative”. Ma quali trattative? Forse una revisione della bozza di Istanbul del 2022, come sembra suggerire la presidenza russa? Peccato che due anni siano passati e certi protocolli diventano velocemente caduchi.
Come si possono prendere per veritiere le proposte russe, laddove Medvedev, sempre più incarnato nel suo ruolo di “poliziotto cattivo” – o forse di bullo di quartiere – dopo aver continuato a sostenere (marzo 2024) che l’esistenza stessa di una Ucraina indipendente è foriera di guerre e che quella terra è russa, alla faccia della cronologia e della storia, evoca lo spettro di un conflitto su larga scala nel caso di un maggiore coinvolgimento degli alleati dell’Ucraina.
Vi è un elemento che sfugge in Occidente ed è che – oltre la contemporaneità – nella retorica russa abbia un ruolo immenso il rapporto con la storia. Il continuo riferimento alla Polonia, “risentita da oltre 400 anni”, come “nemico” ne è la dimostrazione. Micol Flamini de Il Foglio ha ricordato che il premio Nobel polacco Czeslaw Milosz scriveva che non esistono forse due tipi umani così diversi, come il russo e il polacco, ma non esistono forse due nazioni che abbiano modellato la loro storia tanto come hanno fatto Varsavia e Mosca. Si conosce bene la fuga della prima dalla seconda, ma spesso si tralascia l’ossessione della seconda per la prima”.
In “Animal House”, Jim Belushi diceva “when the going get tough, the tough get going”. L’Occidente deve decidere se varcare il suo Rubicone. Da una parte vi è l’antico ruolo di “Comunità di destino”, dall’altra vi è il declassamento ad “espressione geografica”.