Dopo un periodo in cui Hong Kong era al centro dell’attenzione internazionale a causa della violenta repressione praticata dalla Repubblica Popolare Cinese, ora della ex colonia britannica si parla pochissimo. Nel frattempo Pechino prosegue imperterrita con il suo progetto di assimilazione totale.
L’Occidente assiste senza reagire alla distruzione di ogni libertà in una metropoli che era riuscita a conservare una certa autonomia, in linea con il trattato firmato da Pechino e Londra nel 1997. Tale autonomia, stando al suddetto trattato doveva avere una durata di cinquant’anni (vale a dire fino al 2047). In base al principio “una Cina, due sistemi”, formulato ai tempi di Deng Xiaoping, l’ex colonia avrebbe dovuto conservare una magistratura indipendente secondo l’ordinamento giuridico della “Common Law” britannica.
Gli inglesi avevano lasciato in eredità lo stato di diritto, che nella Cina comunista è sconosciuto. Proprio per questo la città-isola era un’eccezione, e chi ha avuto modo di visitarla prima che i cinesi ne prendessero il controllo completo rammenta l’atmosfera cosmopolita e il grande fervore culturale.
La repressione
Dopo le imponenti manifestazioni per la democrazia che avevano riempito strade e piazze, e che attirarono l’attenzione del mondo intero, qualcuno si illudeva che la Repubblica Popolare non sfidasse l’opinione pubblica internazionale, e in particolare quella dell’Occidente.
Ma così non è stato, e il Partito Comunista Cinese decise che l’eccezionalità di Hong Kong doveva finire a ogni costo. Pechino ha creato una “Agenzia per la sicurezza nazionale” nel territorio della ex colonia, divenuta ben presto la “longa manus” di Pechino in loco.
La condanna dei 47
Si è saputo che è stata emanata la prima sentenza riguardante il gruppo dei “Quarantasette”, attivisti, politici e giornalisti che avevano svolto un ruolo chiave nelle dimostrazioni pro-democrazia, e che non sono riusciti – a differenza di altri – a fuggire all’estero. Tutti condannati in base alla nuova legge sulla sicurezza nazionale introdotta dalla Repubblica Popolare, che ha lo scopo di eliminare qualsiasi segnale di autonomia e di democrazia.
L’accusa è di aver partecipato a una “associazione a delinquere finalizzata alla sovversione”, ove per “sovversione” si intende ovviamente quella dell’ordine in vigore a Pechino. Molti degli imputati sono in carcere dal febbraio del 2021, mentre di altri non si hanno più notizie. Il che significa, con ogni probabilità, che sono reclusi in uno dei tanti laogai (campi di concentramento) della Repubblica Popolare.
Poco importa che, nelle ultime elezioni libere, le forze politiche democratiche fossero riuscite a conquistare la maggioranza dei seggi. Al contrario, per Pechino questo fu un segnale molto pericoloso, suscettibile di provocare un contagio nel territorio metropolitano.
La distrazione occidentale
Il Partito Comunista Cinese ha quindi ottenuto una vittoria completa, anche se alcuni indizi indicano che il fuoco continua a covare sotto le ceneri. A questo punto i Paesi occidentali non possono più avere alcuna voce in capitolo. Anche perché, adesso, sono più preoccupati dalle mire cinesi su Taiwan e dal crescente espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Dove, ad essere sotto pressione, non è soltanto Taiwan ma anche le Filippine, alleato chiave degli Usa in questo scacchiere.
L’unico modo per aiutare Hong Kong è continuare a parlarne, anche se l’esperienza dimostra che a Pechino le parole e le proteste non interessano affatto. E alla causa della democrazia non giova certamente l’incertezza in politica estera manifestata in più occasioni dall’amministrazione Biden.