Di nuovo, Mario Draghi è tornato a parlare. Di nuovo, ha mostrato di non essere più leuropeista, ma atlantico. E, di nuovo, la stampa italica pare averci capito un bel niente. Egli lo ha fatto a Washington, presso un club di economisti detto NABE (National Association for Business Economics), che gli ha consegnato un premio, detto Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award for Economic Policy. Prima ha tenuto un discorso poi, per una ventina di minuti, ha conversato con la presidentessa dell’associazione ospite, una economista di Morgan Stanley.
La globalizzazione l’è morta
Il dato di partenza, per Sua Competenza, è la fine della globalizzazione, nel senso di “persistenza del libero scambio”. Basato, quest’ultimo, sul presupposto fondamentale “che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti”.
Invece niente, la globalizzazione “ha portato a grandi squilibri commerciali”. E ciò a motivo del fatto che fior di Paesi hanno deciso che “il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine”.
Cita, in particolare, la Cina che “non ha notificato all’OMC alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali”. Cita le economie dell’Asia orientale, le quali “dopo la crisi del 1997 … hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie … impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio”. Citerà la Russia: “La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi”.
Ma cita pure Leuropa, la quale “dopo la crisi dell’Eurozona del 2011 … ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti … attraverso le errate politiche fiscali procicliche, sancite dalle nostre regole, che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro”.
Ebbene, tutti costoro sono i pirati colpevoli dei grandi squilibri commerciali, cioè della fine della globalizzazione. Dunque, non solo Cina e Putin e le tigri dell’Indo-Pacifico … ma pure Bruxelles, cioè Berlino.
D’altronde – continua il nostro – l’avanzo commerciale leuropeo era “a un massimo di oltre il 3 per cento del Pil nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del Pil mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato”. Leuropa come covo dei pirati.
Il modello europeo l’è morto
E non basta, perché tale comportamento piratesco, se ha certamente fatto bene al vecchio terzo mondo (“ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni”), al contrario ha fatto molto male a Leuropa.
La quale, con le dette “errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole, che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro”, si è auto-prodotta “il rallentamento del mercato del lavoro … perdita secolare di potere contrattuale”, il calo della quota di reddito del lavoro “più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati, nel 1950”.
Nonché, un calo degli investimenti pubblici, “mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria”.
Il tutto solo per ritrovarsi con la pandemia, che “ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori”, e poi con la interruzione delle forniture russe seguite alla citata guerra in Ucraina.
Insomma, un disastro. Un disastro cui la politica monetaria ha reagito – al tempo che la governava lui stesso – “attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro”.
Dunque, la colpa non è sua di Draghi, o di Francoforte. Ma proprio di Bruxelles cioè Berlino. Le quali hanno proprio sbagliato politica economica e per tanto tanto tempo. Sin qui, un discorso che meno leuropeista non si può.
La vittoria dei deplorables
Finita la globalizzazione, “vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica”.
Ma non solo, nascondendosi dietro “l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico”, Usa e Leuropa stanno passando al protezionismo aperto: “l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Ue danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio”.
Precedentemente, tali esiti erano stati invocati non dalle élite – presso le quali “l’indifferenza ha prevalso”, “rimanevano indifferenti”, la “nostra indifferenza” -, bensì da “ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali [che] si sono giustamente sentiti lasciati indietro dalla globalizzazione” e chiedevano “un intervento più attivo dello Stato, che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione”. Tradotto, i deplorables hanno vinto e Leuropa ha perso.
L’Occidente-commerciale
Significativamente, Draghi non li chiama deplorables, bensì “forze orientate verso l’interno”. Una definizione che contiene la propria spiegazione.
Esterno, per lui, non è più la globalizzazione. Bensì una sorta di Occidente-commerciale: assistiamo a l’“emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6 per cento in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di IDE che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento”.
Occidente-commerciale è una cosa diversa da Lue: anzi, oggettivamente la supera rendendola irrilevante.
Ridefinizione dei valori liberali
Sicché, il problema dei vecchi deplorables, oggi, non è che essi si possano opporre alla globalizzazione – che tanto è morta e sepolta – bensì che si oppongano all’Occidente-commerciale. Nel contrapporre tali “forze orientate verso l’interno” ai “valori liberali”, egli nasconde una ridefinizione di questi ultimi: da ben disposti verso il libero scambio globale a ben disposti verso il libero scambio occidentale.
Che è una transizione semantica mica da ridere. E descrive una dialettica politica di fondo, completamente diversa da quella usualmente percepita. I vecchi deplorables che si oppongono solo al commercio con Russia e Cina, sono nuovi liberali. I vecchi liberali che oggi non si oppongono al commercio con Russia e Cina, sono nuovi deplorables. E non sapremmo come dargli torto.
Non sarà facile
Il resto del discorso è una disanima dei problemi economici che il libero scambio occidentale dovrà affrontare. E non sono pochi. Fondamentalmente, “dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro” e non per aumentare lo stock di capitale, “quanto per sostituire il capitale” precedentemente investito (per esempio nei gasdotti siberiani).
Tutto ciò implica “shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti”, “una temporanea riduzione dell’offerta aggregata, mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia”.
A loro volta, tali shock negativi dell’offerta non possono che chiamare “deficit pubblici persistentemente più elevati”. Per tener buoni i deplorables (“i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni … Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno”). Ma pure i settori produttivi, visto che invoca “una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati”.
Insieme, l’enorme quantità di denaro da investire e i persistenti deficit fiscali promettono “una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo”. Bel casino, innegabilmente. Draghi stesso chiosa che “le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate”, “non sarà facile”.
Dimenticare Greta Thunberg
Soluzioni? La prima è implicita nella definizione delle “transizioni che le nostre società stanno intraprendendo”, che egli distingue in tre gruppi. Il terzo gruppo è quello delle transizioni dettate “dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione”: e qui ha già detto che è inevitabile pagare. Il secondo gruppo è quello delle transizioni dettate “dalle minacce di autocrati nostalgici”: qui non c’è una nostra scelta, reagire è inevitabile.
Il primo gruppo è quello delle transizioni dettate “dalla nostra scelta di proteggere il clima”: qui non c’è alcunché di inevitabile, siamo noi a voler impiegare via una montagna di soldi. E, visto che è una nostra scelta, possiamo prue cambiarla.
Peraltro, abbiamo visto come egli abbia descritto Usa e Leuropa usare “l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico” per giustificare forme di protezionismo aperto: una funzione ancillare, quindi, che ben si potrebbe sostituire con differenti argomenti.
Infine, in nessun passaggio Draghi accenna ad una responsabilità antropica per l’asserito cambiamento climatico. Con tanti saluti a Ursula, la politica gretina della quale è, finanziariamente, insostenibile. Anche qui, un discorso che meno leuropeista non si può.
Dimenticare Bce
Altre soluzioni? “Un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri … sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta”. Tradotto, soprattutto, “un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti”.
Cioè, “la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria”. Perché, “se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali”. In definitiva, deve pagare una banca centrale.
Banca centrale che dovrebbe contentarsi della promessa che la “enorme quantità di denaro” “sia in ultima analisi non inflazionistica”, distinguendo fra “una spesa pubblica buona o cattiva” e considerando buona quella finanziata da una molto ma molto eventuale “emissione di debito comune per finanziare gli investimenti”.
Perché solo una cosa conta: “abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni”. Punto. Con tanti saluti a Bce, lo statuto della quale è, con l’Occidente-commerciale, incompatibile. Pure qui, un discorso che meno leuropeista non si può.
Conclusioni
Per riassumere, chi ha letto un discorso leuropeista ci ha capito un bel niente. Si attardi pure a difendere la globalizzazione, l’austerità, la lotta al cambiamento climatico, Bce, l’indipendenza delle banche centrali. Noi lo precediamo nell’Occidente-commerciale.