Esteri

L’Ue non fa sul serio con il gas russo: pasticcio sanzioni e piani “gretini”, Putin ringrazia

Zuppa del 19 settembre 2020

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La sconcertante pantomima della Commissione europea sul pagamento delle forniture di gas russo secondo lo schema proposto da Mosca. Il pacchetto di sanzioni fantasma, presentato in pompa magna dalla presidente Ursula von der Leyen al Parlamento europeo due settimane fa e poi disperso, sepolto sotto l’insostenibilità dell’embargo sul petrolio russo. Ora, l’ennesimo programma calato dall’alto, il REPowerEU, che rischia di produrre esiti opposti a quelli proclamati.

Tre esempi illuminanti di come l’Ue sia molto più efficiente nel sanzionare i cittadini europei che la Russia di Vladimir Putin. Nei primi due casi infatti Mosca ha ottenuto due importanti vittorie, mentre il REPowerEU non sembra poter impensierire la sua leva energetica sul Continente. Ma procediamo con ordine.

Come ad alcuni era apparso chiaro fin dall’inizio, lo schema di pagamento delle forniture di gas proposto dal Cremlino raggiunge il suo scopo: aggirare le sanzioni nella sostanza, ma senza mettere le compagnie europee nella condizione di violarle formalmente. Ipocrita scandalizzarsi: l’Europa non è in grado di rinunciare oggi al gas russo, dunque in qualche modo deve pagarlo. Questa è la premessa da cui non si scappa, e il loophole nelle sanzioni in cui si è abilmente infilato Putin. Il cui obiettivo, più che imporre il pagamento in rubli, è impedire che anche i proventi della vendita di gas all’Europa vengano sequestrati e, tramite essi, poter sostenere il rublo. Da qui la richiesta agli acquirenti di aprire un doppio conto in Gazprombank. Le compagnie europee continueranno a pagare il gas in euro o in dollari, solo che alla fine diventeranno rubli.

Lecito o no? Ancora non si è capito, dai portavoce della Commissione e dagli stessi commissari, come Gentiloni, sono arrivate dichiarazioni confuse e contraddittorie, a giorni alterni: pagare in euro o in dollari non viola le sanzioni, assicura uno; ma aderire allo schema del Cremlino rappresenta comunque una violazione, avverte l’altro. Mentre i governi facevano i pesci in barile, poche compagnie si sono esposte mettendoci la faccia, come la nostra Eni.

Anche l’impasse sul sesto pacchetto di sanzioni, che avrebbe dovuto includere l’embargo sul petrolio russo, è un regalo al presidente Putin. Se fino a quel momento gli Stati membri avevano dimostrato una insperata compattezza nel rispondere all’aggressione russa, perché mettere sul tavolo e, anzi, annunciare in pompa magna una sanzione attuabile, forse, nella migliore delle ipotesi, tra sei mesi, ma che si sapeva essere divisiva già da oggi? Se qualcuno pensa davvero che sia il veto ungherese a bloccare il ban Ue del greggio russo è ingenuo o in malafede. A frenare dietro le quinte c’è Berlino, ma ci sono probabilmente anche le preoccupazioni di Washington, che teme una nuova impennata dei prezzi del greggio a livello globale e una ulteriore fiammata inflazionistica, che non aumenterebbero certo le chance del presidente Biden e dei Democratici di uscire indenni dalle elezioni di midterm.

Infine, il REPowerEU, il nuovo piano della Commissione europea il cui scopo dichiarato è metterci nelle condizioni di fare a meno del gas russo e farci uscire dalla crisi energetica. Non si capisce però per quale misterioso incantesimo le stesse ricette con le quali ci siamo infilati in questo vicolo cieco, ora, potenziate, dovrebbero permetterci di uscirne…

In pratica, l’Ue prende a pretesto l’esigenza di affrancarci dalla dipendenza energetica da Mosca per spingere ancora di più la transizione green, ma è proprio la transizione green, con la sua cesta di politiche dirigiste e distorsive, che ha accresciuto la nostra dipendenza dal gas e causato l’impennata dei prezzi dell’energia – dinamica già in atto mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Una assurda rincorsa a obiettivi sempre più ambiziosi – e irrealistici – di decarbonizzazione: elevata al 45 per cento la percentuale di fonti rinnovabili che dovrebbe soddisfare la domanda finale di energia e fissato al 55 per cento entro il 2030 il taglio delle emissioni rispetto al 1990. Ai quali si aggiungono l’obiettivo di ridurre la domanda di petrolio e gas del 5 per cento attraverso la riduzione dei consumi, per esempio limitando le temperature degli impianti di riscaldamento e raffrescamento, e l’obbligo legale di installare pannelli solari sugli edifici pubblici e commerciali entro il 2025, e sui nuovi edifici residenziali entro il 2029.

Una cura da cavallo gretina che, se somministrata, andrà ad aggravare ulteriormente gli effetti distorsivi già pesantissimi sul mercato dell’energia. Non bisogna mai dimenticare che una delle funzioni più importanti del mercato è fornire segnali di prezzo che aiutano gli operatori a guidare le loro decisioni di investimento e i consumatori le loro scelte e i loro comportamenti di consumo. La forte spinta alle rinnovabili e gli obiettivi di decarbonizzazione sono all’origine dei disinvestimenti negli idrocarburi, quindi della crisi dell’offerta e della conseguente esplosione dei prezzi.

Putin ringrazia: se l’Occidente disinveste, aumentano le sue quote di mercato. Al di qua e al di là dell’Atlantico gli estremisti del climate change sono i suoi migliori alleati, i suoi “utili idioti”. Come riportano Victoria Coates e Jennifer Stefano su The Federalist, negli Stati Uniti la guerra al fracking è condotta da gruppi ambientalisti radicali ben finanziati, nonché da interessi direttamente legati a Vladimir Putin. Per anni, il governo Usa ha indagato sui legami finanziari tra la Russia e i gruppi ambientalisti che spingono per porre fine alla produzione di idrocarburi, riuscendo a far chiudere siti di fracking e pipeline, a scapito dei lavoratori e dei consumatori statunitensi (ma non solo).

Se gli Stati Uniti avessero aumentato la loro produzione di gas naturale, se avessero consentito maggiori investimenti nel fracking o in altra produzione di energia – ma lo stesso discorso vale a maggior ragione per l’Ue – Putin non avrebbe oggi una leva strategica sull’Europa.

E qual è il nuovissimo piano Ue per sottrarsi al ricatto energetico di Mosca? More of the same, ancora più rinnovabili. Ecco perché i proclami di Bruxelles e dei governi Ue di volersi affrancare dalla dipendenza dalle forniture energetiche russe non possono essere presi sul serio. Da una parte, come detto, spingere sulla transizione green significa spingere sulle stesse politiche che negli ultimi anni hanno accresciuto, non ridotto, la domanda di gas e alimentato la dinamica rialzista dei prezzi energetici. Dall’altra, nulla di ciò che è contenuto nel piano sembra in grado di sostituire il gas russo.

Si continua infatti a puntare tutto sulle rinnovabili, le quali però essendo fonti di energia intermittente (si produce quando c’è sole o vento) e non accumulabile, non potranno mai sostituire idrocarburi e nucleare, che garantiscono la continuità di cui hanno bisogno le nostre economie industrializzate.

Berlino cerca alternative al gas russo nelle forniture di LNG, ma non sembra avere intenzione di “demerkelizzare” la sua politica energetica. Il governo di Olaf Scholz ha confermato, per esempio, la scelta dei governi Merkel di uscire dal nucleare e non ha alcuna intenzione nemmeno di posticiparla, prolungando l’attività delle centrali esistenti o riattivando quelle fermate. Anzi, si oppone all’introduzione del nucleare tra le fonti pulite nella tassonomia verde europea. In Italia nucleare neanche a parlarne…

Completamente ignorata a Bruxelles la possibilità di aumentare la produzione europea di idrocarburi. Non sia mai che si parli di fracking o trivelle, di concessioni per la prospezione e lo sfruttamento di riserve di gas e petrolio in territorio europeo, per esempio nel Mar Mediterraneo.

Di risparmio energetico si parla, ma l’efficientamento richiede tempi lunghi e costi alti, come stiamo sperimentando in Italia con il Bonus 110 per cento, che oltre a gravare sulle finanze pubbliche contribuisce alle spinte inflattive.

L’obbligatorietà dei pannelli solari è una ciliegina sulla torta: essendo i componenti in gran parte prodotti in Cina, rischiamo solo di aggiungere alla dipendenza da Mosca la dipendenza da Pechino.