Esteri

Prima Parte

Merkel come Chamberlain? No, fu più ambigua e pericolosa – Prima parte

La ex Cancelliera tedesca passerà alla storia come la moderna incarnazione dell’appeasement? Ecco le numerose Monaco di Frau Merkel che hanno incoraggiato Putin

Esteri

Man mano che le proporzioni della guerra attualmente in corso tra Russia e Ucraina si allargano, e la posizione dell’Europa si dimostra sempre più debole, soprattutto sotto il profilo dell’approvvigionamento energetico, si susseguono tentativi di stabilire dei paralleli storici con situazioni del passato, un po’ allo scopo di permettere un certo livello di analisi predittiva, un po’ come mero esercizio retorico.

Senz’altro nella prima categoria possiamo iscrivere l’accostamento proposto da numerosi osservatori, e sostenuto con dovizia di analisi da parte di Andreas Kluth, esperto di politica internazionale di Bloomberg.

In effetti, Kluth ha proposto con convinzione pochi mesi fa, sulle pagine del Washington Post, il parallelo Merkel-Chamberlain. Un accostamento importante e carico di significati – e, nel complesso, niente affatto lusinghiero, specie se sostenuto da un giornalista che in passato non aveva mai nascosto di ammirare l’operato della più longeva cancelliera nella storia tedesca.

Chamberlain, l’alfiere della pace a ogni costo

Prima di addentrarci nella questione sarà bene proporre un rapido ripasso della storia, così da permettere a tutti di orientarsi. Neville Chamberlain è stato un politico inglese, protagonista dei primi decenni del XX secolo.

Esponente di spicco del Partito Conservatore, capace di strappare il seggio di Birmingham ai laburisti in ascesa, il suo nome resta tristemente legato al termine “appeasement”, che nello specifico indica un atteggiamento a tratti accomodante nei confronti della Germania nazista, allo scopo di evitare lo scoppio di una guerra di enormi proporzioni a vent’anni dalla fine del primo conflitto mondiale.

In effetti, Chamberlain era diventato leader del partito e primo ministro britannico nel 1937, nel momento di rapida ascesa del Terzo Reich. In particolare, viene ricordato il suo incontro con Adolf Hitler a Monaco nel 1938, da lui apertamente definito come volto a garantire “la pace nel nostro tempo”.

In quel 1938, il leader nazista aveva già dato ampia manifestazione delle proprie intenzioni, rimilitarizzando la Renania e annettendo l’Austria: adesso, si stava preparando a smembrare la Cecoslovacchia, con la giustificazione che i tedeschi dei Sudeti erano minacciati di “annientamento”.

In effetti, non mancano i punti di contatto con l’ideologia putiniana della difesa dei russofoni del Donbass, sottoposti a “genocidio” dallo stato ucraino – un’eco che avrebbe dovuto essere percepibile già a Minsk, durante le trattative mediate appunto da Angela Merkel.

L’accordo di Monaco

Ma non corriamo. Per chiudere momentaneamente il nostro piccolo résumé, ricordiamo che la storia racconta che a Monaco, anche grazie alla mediazione di Mussolini, fu raggiunto un accordo: in pratica, Hitler ottenne quasi tutto ciò che chiedeva.

La Cecoslovacchia fu costretta a cedere immediatamente i Sudeti alla Germania, perdendo circa un terzo della propria popolazione, e a rimettersi agli esiti di successive trattative con i Paesi confinanti per dirimere le altre questioni territoriali, presenti e future, senza alcuna assistenza da parte di UK e Francia – che pure aveva da quasi 15 anni un accordo di mutuo soccorso diplomatico e militare con la Repubblica Cecoslovacca.

In cambio, Hitler concedeva una invero piuttosto vaga promessa di non avanzare in futuro pretese sui territori di alcun’altra nazione centroeuropea, e accettava di sottoscrivere un patto formale di non aggressione con la Francia – cosa che sarebbe effettivamente avvenuta in dicembre.

Chamberlain, che aveva di fatto guidato lo “schieramento occidentale”, era riuscito a evitare quella che vedeva come una tragica ripetizione degli eventi del 1914, ossia l’inizio di una guerra dalle conseguenze spaventose per questioni territoriali che a posteriori avrebbero potuto sembrare quasi trascurabili.

Che cos’era, in fondo, l’integrità territoriale di un piccolo Paese che fino a vent’anni prima neppure esisteva, di fronte a milioni di morti? Così, il 30 settembre poté tornare in Inghilterra e annunciare con sollievo “I have returned from Germany with peace for our time […] go home and get a nice sleep”.

Le numerose Monaco di Frau Merkel

Kluth sostiene quindi senza mezzi termini che Angela Merkel, come Chamberlain, “potrebbe passare alla storia come l’incarnazione dell’appeasement del mondo democratico nei confronti di un tiranno che, con il senno di poi, sarebbe stato fin troppo chiaro che non avrebbe mai accettato alcuna pace”.

Guardando ai fatti, possiamo dire che la Cancelliera tedesca, in carica dal 2005 alla fine del 2021, abbia de facto indirizzato, quando non direttamente gestito, l’approccio europeo – e a volte anche oltre – nei confronti della Russia nel corso degli ultimi tre lustri. Il suo atteggiamento può facilmente essere definibile come accomodante, pur di fronte ad una sempre più evidente aggressività della controparte.

Georgia, la prima invasione

Già nel 2008, la Merkel emerse come la figura più autorevole nel contesto dei vertici Nato dedicati alla gestione della prima, grave crisi internazionale causata dalle mire espansionistiche di Vladimir Putin.

I recenti sommovimenti in Georgia e Ucraina stavano portando i due Paesi verso il campo occidentale, e il Cremlino reagiva con segni di estrema insofferenza, fino a procedere all’aperta invasione militare della nazione caucasica, ufficialmente nell’ambito di un intervento di peacekeeping volto a tutelare gli interessi della minoranza osseta.

Di fronte a una tale manifestazione di decisa aggressività, la linea che passò fu proprio quella di Merkel, incentrata sulla ricerca di un compromesso che essenzialmente offrisse a Putin la concreta occasione di prendersi tutto ciò che voleva. L’ipotesi di adesione di Georgia e Ucraina alla Nato venne di fatto accantonata, non vennero imposte sanzioni alla Russia per l’intervento militare nella Repubblica caucasica.

Il governo ucraino di Yulia Timošenko, ormai “compromesso”, venne contestualmente abbandonato a se stesso, in attesa della prevedibile ingerenza russa, che nel giro di pochi anni avrebbe portato all’arresto della ex presidente e all’instaurazione di un regime fedele a Mosca.

A posteriori, la Merkel non rivede la sua posizione. Intervistata in giugno proprio dallo stesso Kluth, ha rivendicato il merito del suo compromesso: “impedire che Putin scatenasse una guerra aperta di vasta portata, proprio come ha fatto quest’anno”.

Il problema di quell’accordo, di fondo, è che scontentava un po’ tutti, tranne gli europei occidentali, che potevano continuare a fare tranquillamente affari con la Russia, mantenendo al contempo le proprie coscienze quanto più pulite possibile.

Putin non aveva infatti ottenuto una formale rinuncia da parte della Nato a qualsiasi adesione futura da parte di altre repubbliche ex-sovietiche, ma solo un congelamento dei processi. Allo stesso tempo, aver avuto prova concreta della relativa facilità con cui l’Europa, a differenza degli Stati Uniti, si mostrava disposta a venirgli incontro non avrebbe fatto altro che accrescere la sua fiducia nei propri mezzi e la sua audacia.

Ucraina, l’invasione del 2014

Quando, sei anni dopo, il problema si è ripresentato nello stesso identico modo, i toni sono stati immediatamente più alti. La rivoluzione di “Euromaidan – in larghissima parte spontanea reazione alla corruzione del regime filorusso instaurato in Ucraina da Viktor Janukovyč, e alla mancata firma dell’accordo di associazione di Kiev con l’Ue, per il veto di Putin – innescò una serie di reazioni in larga parte non desiderate, a Berlino quasi quanto a Mosca.

L’Ucraina si staccava di colpo dalla Russia, e chiedeva di legarsi all’Occidente. Putin stavolta non lasciò molto spazio alla diplomazia. Invase la Crimea con l’operazione lampo dei “green men”, soldati russi privi di insegne e la annetté tramite plebiscito. Sovvenzionò poi la secessione delle due Repubbliche popolari nel Donbass e la conseguente guerra civile nell’Ucraina orientale.

Di fronte ad un tale aumento della violenza e a tante aperte violazioni del diritto internazionale, come si poteva rispondere? L’Europa di Angela Merkel scelse di farlo in modo talmente blando da essere difficile definirlo in altro modo che al limite dell’ipocrisia.

I colloqui di Minsk

Fu proprio la Merkel a gestire la questione in prima persona, organizzando i colloqui di Minsk, svoltisi tra il 2014 il 2015. Già la scelta di farlo ospitare, in veste di “anfitrione super partes” dal leader della Bielorussia Lukašenko, il più stretto alleato di Putin, mostra chiaramente la volontà dei mediatori, ossia Merkel e il presidente francese Hollande di far trovare al presidente russo e all’allora leader dell’Ucraina Porošenko un accordo che non scontentasse troppo il primo.

E così fu: l’Ucraina dovette fare ampie concessioni sul Donbass, prendere atto dello status quo in Crimea e non fare ulteriori passi verso Occidente, in cambio di un cessate il fuoco che non sarebbe mai stato interamente rispettato.

Ma cosa avrebbe dovuto fare la Germania?” ha detto Angela Merkel a Kluth, “ignorare il Paese più grande del suo continente?”. Le era chiaro che che Putin “odiava” la democrazia e voleva “distruggere” l’Unione europea, che considerava “una droga” ideata per adescare l’adesione alla Nato delle repubbliche ex-sovietiche come l’Ucraina, che per lui sono parte della sfera d’influenza della Russia – e quindi della sua. E allora, perché assecondarlo?

Le “dure” sanzioni

In effetti, l’impressione che si ricava da questa lunga intervista è che Angela Merkel tenga per prima a fornire di se stessa una rappresentazione che ricordi Neville Chamberlain. A dipingersi come un politico idealista e pragmatico allo stesso tempo, deciso a seguire il motto “give peace a chance” fino all’ultimo, e ad adeguarsi allo stesso tempo, pur controvoglia, al “para bellum”.

Ma è davvero così? Per il primo ministro britannico, certamente sì; per la cancelliera tedesca, è davvero molto difficile crederlo.

Oggi, Angela Merkel si compiace di ricordare come in quel 2014 avesse caldeggiato l’espulsione della Russia dal G8, e come si fosse fatta promotrice in sede europea del passaggio di una serie di sanzioni nei confronti della Russia, da lei definite “molto severe”.

In realtà, si trattò di provvedimenti indirizzati ad un ristretto numero di oligarchi direttamente coinvolti nella gestione della Crimea annessa, nonché ad una manciata di funzionari di seconda o terza fascia.

Putin all’apice del successo

La Russia di Putin fu trattata con tanta durezza, che negli anni successivi ebbe modo di ospitare le maggiori competizioni sportive internazionali, dopo le olimpiadi invernali organizzate a poche centinaia di chilometri dalla Crimea pochi giorni prima di invaderla.

I mondiali di atletica a Mosca, quelli di nuoto a Kazan’, per finire con quelli di calcio, gigantesca occasione pubblicitaria per un Putin all’apice del successo, con un piede in Siria, uno in Libia, le mani sul Caucaso e sull’Ucraina, e la foto di un Macron scatenato che festeggia la vittoria francese nel modernissimo stadio Lužniki di Mosca. Non esattamente istantanee da un Paese sottoposto a sanzioni dure e punitive.

Ma “sarebbe stato peggio”, a suo dire, “se alcuni Paesi avessero adottato misure più severe, finendo così per dividere l’Europa e l’Occidente, che è esattamente ciò che Putin voleva e vuole ancora”. Ciò che queste parole evitano di rammentare, è però che la Germania non era in questo caso un paciere neutrale tra “rigoristi” e “fautori dell’approccio morbido”, ma il principale esponente di questi ultimi.

Tempo prezioso

Neville Chamberlain poteva essere un idealista, ma non era certamente uno sciocco, né riteneva Hitler un partner affidabile. Di conseguenza, dopo essere riuscito a strappare l’agognata promessa di pace, provvide comunque a rafforzare la forza militare britannica, in previsione di possibili sviluppi negativi nel medio termine.

Sappiamo poi che questi sviluppi sarebbero giunti addirittura nel breve termine, con Hitler che venne meno agli accordi e procedette ad annettere la quasi totalità della Cecoslovacchia appena pochi mesi dopo, e neanche a un anno di distanza dalla conferenza di Monaco invase la Polonia.

A quel punto, il Regno Unito non ebbe altra scelta che dichiarare guerra alla Germania. In quell’anno che era trascorso, si era rinforzato, certo, ma la Germania si era rinforzata di più, in proporzione. E tuttavia Chamberlain non era rimasto ad attendere passivamente lo sviluppo degli eventi.

Angela Merkel stessa propone una lettura simile per il suo operato: “gli accordi di Minsk hanno fatto guadagnare all’Ucraina tempo prezioso”, ha detto nel corso dell’intervista, “che ha potuto utilizzare per prepararsi al vero attacco russo, avvenuto quest’anno”.

Se da un lato questo è vero, è stato possibile principalmente grazie all’aiuto diretto americano a Kiev, non certo a quello tedesco, anzi spesso nonostante una certa opposizione da parte di Berlino, timorosa che Washington volesse alzare il tiro.

La “realtà sul campo”

“Il mio cuore ha sempre battuto per l’Ucraina”, ha cercato di riassumere l’ex cancelliera, ma “avevo il dovere di lavorare con la realtà sul campo”. Probabilmente, la verità sull’atteggiamento di Angela Merkel nei confronti della Russia è più complessa, e un po’ più prosaica.

E, sempre con alta probabilità, la “realtà sul campo” con cui “ha dovuto lavorare” aveva a che fare principalmente con il perseguimento dell’interesse economico tedesco nel breve termine, più che con ogni altra considerazione di carattere politico – e meno ancora etico.

Cercheremo di analizzare in dettaglio questa realtà, il modo in cui Angela Merkel vi si è relazionata, e le conseguenze sulle politiche complessive del continente che il suo operato ha avuto.

>>> SECONDA PARTE