No, non sono sull’orlo di una crisi di nervi. Sono nel pieno di una crisi di nervi. Come li fa letteralmente impazzire Elon Musk, nessuno. Forse nemmeno Salvini e Meloni, forse nemmeno Trump. Molto semplicemente, non possono farci niente e questo li mette di fronte ad una rara impotenza. Non c’è (ancora) un magistrato che può incriminarlo, né (ancora) un bavaglio per silenziarlo, né si può battere alle prossime elezioni.
Anzi, da quando ha stretto un buon rapporto con Giorgia Meloni, e da quando è alleato di Donald Trump, non possono permettersi di ignorarlo. Devono parlarne. Di più: pendono da ogni sua parola, probabilmente anche sovrastimando la sua influenza e mal celando una certa paranoia. Hanno persino coniato un termine-spauracchio, nuovo di zecca: Tecnodestra. Che ovviamente non significa nulla, dovrebbe solo spaventare il pubblico come gli ormai logori ultradestra e fascismo.
Starlink e sovranità
Dopo l’uscita contro i giudici immigrazionisti (“These judges need to go”, “questi giudici devono andarsene”), a cui persino il presidente Mattarella ha ritenuto di dedicare il suo tempo e le sue parole, ora a far tremare le opposizioni e i giornali di sinistra è il possibile accordo tra il governo italiano e SpaceX per il sistema satellitare Starlink.
Gli stessi che hanno svenduto la nostra sovranità in ogni ambito e sede, senza il minimo pudore, senza battere ciglio, anzi giocando di sponda con le ingerenze straniere, per non parlare degli asset industriali svenduti e degli accordi economici con potenze ostili come Cina e Russia, ora diventano sovranisti e rimproverano al governo Meloni qualcosa che, loro sì, hanno sostenuto, promosso, praticato.
Palazzo Chigi ha smentito contratti o accordi che pure venivano riportati ieri in apertura su alcuni giornali, ma non ci sarebbe nulla di male, anzi ha ragione chi la definisce una grande opportunità.
Come ha spiegato Andrea Stroppa, Starlink è un sistema “molto sicuro” e “resistente agli attacchi”, permette di avere il “pieno controllo dei dati e una completa sovranità sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista legale”. E certo non sarebbe l’unica tecnologia Usa che utilizziamo in settori sensibili: “Tutti i sistemi di comunicazione nei Paesi europei utilizzano tecnologie statunitensi. Dai sistemi operativi come Microsoft o iOS alle infrastrutture complesse”. Basti pensare al Polo strategico nazionale, ovvero il cloud nazionale, “infrastruttura basata sui sistemi di Google, Microsoft e Oracle. Tutte aziende statunitensi”.
Dobbiamo restare fedeli al progetto europeo Iris2, dicono, il quale però non esiste. È, appunto, un progetto, a guida franco-tedesca, dal costo di 10 miliardi (a fronte dell’1,5 di Starlink) che se tutto andrà bene sarà operativo non prima del 2030, ma con 270 satelliti (a fronte dei 7 mila attuali di Starlink). La realtà è che ad oggi e nel prossimo futuro solo Starlink ha la tecnologia e il know how per un sistema satellitare a bassa quota a costi contenuti (grazie al lancio in orbita tramite razzi riutilizzabili).
Quindi chi è che non vuole l’accordo? Chi prometteva, sulla carta, un servizio simile a Starlink da realizzare in non meno di 8 anni e ora vede allontanarsi miliardi di euro. Stroppa suggerisce di guardare chi è uscito allo scoperto in queste ore, “parlamentari stranieri, giornali a Bruxelles, parlamentari italiani che hanno fatto da consulenti per aziende tecnologiche e di comunicazioni straniere. Siamo addirittura arrivati al punto di parlamentari tedeschi che si preoccupano per la sicurezza dell’Italia”. “Strano però che non si sia visto questo polverone per gli appalti del cloud, delle infrastrutture delle telecomunicazioni, e per l’acquisto di tecnologie. Contratti da miliardi e miliardi di cui però non si è mai letta una riga”.
Dobbiamo sentire chi fino a ieri concludeva o sosteneva accordi con i cinesi farneticare di sicurezza a rischio con SpaceX, azienda del nostro principale alleato che da anni – e soprattutto con amministrazioni democratiche – lavora con Pentagono, Nasa e numerosi governi Nato. In particolare Starlink è attivo già in più di 110 Paesi nel mondo, tra cui l’Ucraina.
La battaglia per il buon senso
No, il problema, lo sappiamo tutti – oltre agli interessi urtati e alle aspettative infrante – è un altro. Chiaramente nessuno avrebbe avuto da ridire se al posto di Musk ci fosse stato un Bill Gates o qualche altro magnate tecnologico politicamente allineato all’establishment. Invece Musk non è dei loro, questo è il problema.
Sì, Musk ha le sue idee politiche e le esprime. Ciò che lo muove è riportare il buon senso nelle istituzioni occidentali, in particolare su tre fronti che lo preoccupano: l’immigrazione incontrollata, l’estremismo woke, la libertà d’espressione. Ma al contrario del suo predecessore alla guida di Twitter e dei suoi colleghi di altri social media, le sue preferenze politiche non si traducono nella censura dei contenuti altrui sulla sua piattaforma X.
Le “ingerenze”
Non si contano i leader politici stranieri, o le testate giornalistiche estere, che prendono parte al nostro dibattito pubblico cercando di influenzarlo. È in un certo senso la misura della centralità che nonostante tutto ancora mantiene il nostro Paese.
Ma nonostante Musk sia una personalità di assoluto rilievo nel campo dell’innovazione e della tecnologia, un miliardario certamente influente, anche grazie alla sua vicinanza a Donald Trump, le sue opinioni non si possono paragonare agli attacchi volti a destabilizzare i nostri governi, come in passato il complotto di Merkel e Sarkozy per far cadere Berlusconi, in tempi più recenti l’ex primo ministro francese Borne, che voleva mettere l’Italia sotto tutela per il rispetto dei diritti umani dopo la vittoria di Meloni alle elezioni del 2022.
Ricordiamo anche il sostegno esplicito di Barack Obama a Matteo Renzi in occasione della campagna per il referendum costituzionale del 2016 e, ancora, le parole di apprezzamento di Trump su Giuseppi proprio durante la crisi di governo che si sarebbe conclusa con la nascita del Conte II.
Anche perché Musk, al contrario di come viene fatto passare dai media tradizionali, non è e non sarà un ministro del governo Usa, ma un consulente, e certo non in un ambito tale da influenzare la linea del governo degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia. Il DOGE, il Dipartimento per l’efficienza governativa, “fornirà consulenza e guida dall’esterno del governo” fino al 4 luglio 2026. Sarebbe bastato leggere bene il comunicato ufficiale di Trump prima di parlare a vanvera. Al massimo quindi Musk è una minaccia per la burocrazia Usa.
Il paragone con Soros
Si fa il paragone con George Soros, per accusare la destra europea di ipocrisia, ma le iniziative dei due sono lontane anni luce. Soros da decenni finanzia a suon di miliardi gruppi e associazioni che promuovono abolizione dei confini, società multiculturale, cancel culture, cessione di ulteriore sovranità all’Ue, depotenziamento dei governi nazionali a favore di entità sovranazionali. Tutte cause che sono alla base della destabilizzazione – sociale, economica e politica – dei Paesi europei e degli stessi Stati Uniti.
D’altra parte, non risulta che Musk stia finanziando partiti politici e organizzazioni non governative europee. Si limita (per ora) a pubblicare post sulla sua piattaforma.
La sfida ai media tradizionali
Post scomodi, ma di assoluto buon senso. Come non vedere, infatti, che l’immigrazione incontrollata sta cambiando nel profondo, in peggio, i connotati delle nostre società? Come non riconoscere che le violenze su migliaia di minorenni insabbiate per anni dalla polizia e dalla magistratura britanniche sono uno scandalo enorme su cui andrebbe fatta piena luce senza indugio, a maggior ragione se c’è il sospetto di un ruolo dell’attuale primo ministro?
La capacità di Musk, con i suoi post, e della sua piattaforma, di riportare al centro del dibattito politico nel Regno Unito questo scandalo sepolto suona come campane a morto per i media tradizionali, come la BBC, per lo più complici dell’insabbiamento, che vengono sempre più efficacemente sfidati da X sul terreno dell’agenda setting, di cui finora erano monopolisti incontrastati.
Le reazioni: Macron, Starmer, Bruxelles
Non solo in Italia, anche alcuni leader europei soffrono i post di Elon Musk su X. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron si è chiesto polemicamente “chi dieci anni fa avrebbe potuto immaginare che il proprietario di uno dei più grandi social network al mondo avrebbe sostenuto una nuova internazionale reazionaria e sarebbe intervenuto direttamente nelle elezioni?”
Non ci vuole molta immaginazione. Già nel 2016 il signor Soros, burattinaio di una vera e propria, conclamata, internazionale progressista, rivendicava con “orgoglio” di aver donato 400 milioni di sterline alla campagna anti-Brexit. Non un post su X, non un’intervista: 400 milioni di sterline.
“Basta con bugie e disinformazione”, sbotta il premier britannico Keir Starmer. Proprio lui, implicato nell’insabbiamento di migliaia di casi di abusi sessuali, contrario ad una inchiesta sulle bande di adescatori pachistani “coperte” dalle autorità britanniche per non alimentare tensioni etniche.
Al governo di Berlino non va giù che Musk intenda ospitare la leader di AfD, Alice Weidel, su X per una intervista: “Non può usare X per avvantaggiare alcuni candidati”. Obietterebbe allo stesso modo se l’intervista apparisse su un giornale o una tv?
Il seme della censura
Dalla Commissione europea ovviamente si agita la clava del DSA:
Ai sensi del Digital Services Act, le grandi piattaforme online devono analizzare e mitigare i potenziali rischi provenienti da diverse aree, inclusi i rischi per i processi elettorali e il discorso civico. Ora, questo include l’obbligo di analizzare e mitigare i rischi derivanti da qualsiasi trattamento preferenziale o visibilità data ai contenuti su una determinata piattaforma, inclusi i contenuti del signor Musk sulla sua stessa piattaforma.
Siamo veramente al doppio standard e alla rimozione senza pudore. Da almeno un decennio le Big Tech, non solo social media come Facebook ma anche motori di ricerca come Google e sistemi operativi come Microsoft, con posizioni dominanti nei rispettivi settori, sono compattamente schierate a favore dei progressisti.
Ed esistono prove ormai inconfutabili di come Facebook e l’ex Twitter siano intervenute direttamente nelle elezioni presidenziali Usa del 2020, con attività di censura e manipolazione della visibilità dei contenuti su indicazione di agenzie federali.
Una sola delle grandi piattaforme, uno solo dei Big Tech, non è dalla loro parte, ma non possono sopportarlo. Sono talmente abituati ad avere tutti allineati e coperti da non tollerare nemmeno una voce fuori dal coro ed ecco che subito gridano all’“ingerenza”.
Sono patetici, ma anche pericolosi, perché ormai hanno sdoganato l’idea della censura per contrastare quella che chiamano “ingerenza” nei processi elettorali e sono determinati, se ne avranno l’occasione, a praticarla.