Il contrario del populismo. Si potrebbe riassumere così, in quattro parole, il discorso di insediamento di Javier Milei come nuovo presidente della Repubblica argentina.
Discorso onesto
Davanti allo stato maggiore della politica nazionale, a decine di capi di Stato e di governo (tra cui Zelensky) e a migliaia di fedelissimi riuniti nella piazza del Congresso di Buenos Aires, il mandatario neo-eletto ha scelto di presentarsi in società dicendo la verità ai suoi connazionali: saranno necessarie misure drastiche per risollevare il Paese dopo un secolo di statalismo assistenziale e corporativo, il sacrificio sarà enorme ma inevitabile per restituire all’Argentina la dignità e la grandezza perdute.
Un discorso idealista e pragmatico allo stesso tempo, di rara onestà intellettuale in tempi di menzogna e ipocrisia generalizzate. Se alla retorica seguiranno i fatti, il fenomeno Milei potrebbe rappresentare una svolta non solo per la nazione argentina ma per l’intera America Latina, intrappolata da decenni in un susseguirsi di “tirannie tradizionali, avventure assurde, tecnocrazie civico-militari e vere tragedie”, per dirla con Carlos Rangel.
Un liberalismo d’attacco
C’è una cosa che rende Milei diverso, almeno nella retorica, dal resto dei politici occidentali: il suo è un liberalismo d’attacco, senza complessi, consapevole, orgoglioso, spesso sfacciato. Non chiede l’elemosina al sedicente progressismo, non si giustifica, rivendica, come chi non ha nulla da farsi perdonare, perché a dover chiedere scusa semmai è proprio chi lo critica.
È dai tempi di Ronald Reagan e Margareth Thatcher che, in un discorso ufficiale, non si ascoltavano riferimenti così espliciti alle virtù del liberalismo politico ed economico. Due passaggi, in particolare, collocati sapientemente all’inizio e alla fine dell’allocuzione segnano una frattura netta con l’esperienza peronista nelle sue varie declinazioni (Kirchner e Menem pari sono, alla fine) ma anche con il gradualismo di Mauricio Macri.
Un cambio di sistema
Il primo è il riferimento alla Costituzione del 1853, concepita sull’esempio dei padri fondatori statunitensi, ispirata ai principi del liberalismo classico e alla dottrina del federalismo: “All’inizio del XX secolo eravamo il faro di luce dell’Occidente”, ricorda Milei, “le nostre coste ricevevano a braccia aperte milioni di immigranti che fuggivano da un’Europa devastata alla ricerca di un orizzonte di progresso”. Ma la dirigenza argentina dei primi decenni del ‘900 decise di abbandonare quel modello per rifugiarsi nelle “idee pauperiste del collettivismo. Da più di 100 anni i politici hanno insistito nella difesa di un modello che ha generato solo povertà, stagnazione e miseria”.
Interessante l’arco temporale scelto da Milei per segnalare la rottura ideologica da lui rappresentata: il nuovo presidente non si contrappone semplicemente all’esperienza politica dei suoi immediati predecessori, al kirchnerismo, ma ad una lunga serie di governi di stampo autoritario e al peronismo sociologico, responsabili di un’involuzione statalista che fino ad oggi sembrava irreversibile. Quello che Milei propone non è un cambio di governo ma un cambio di sistema, una “caduta del Muro di Berlino” in versione argentina.
Un nuovo contratto sociale
Il secondo passaggio è una citazione del professor Alberto Benegas Lynch, cattedratico dell’Università di Buenos Aires, teorico del liberalismo e uno dei padri spirituali di Milei: “Il liberalismo è il rispetto illimitato del progetto di vita del prossimo, basato sul principio di non aggressione, sulla difesa del diritto alla vita, della libertà e della proprietà, le cui istituzioni fondamentali sono la proprietà privata, il mercato libero da interventi statali, la libera concorrenza, la divisione del lavoro e la cooperazione sociale”. Su questi principi il politico Milei vuole fondare quello che definisce “il nuovo contratto sociale che hanno scelto gli argentini”.
“No hay plata”
Un contratto che nasce da una cesura netta con il passato, a cui l’economista Milei ha dedicato tutta la parte centrale del suo discorso. Un lungo e implacabile atto d’accusa contro l’eredità avvelenata lasciata al suo governo: deficit fiscale alle stelle, inflazione fuori controllo, tasso di cambio penalizzante, debito pubblico da bancarotta, tasso di occupazione ufficiale ai minimi storici, economia sommersa in continua espansione, salari da fame.
“Ci hanno rovinato la vita”, proclama Milei, dopo aver dettagliato con cifre e percentuali lo stato comatoso dell’economia argentina. “Non esiste alternativa al cambio e non esiste alternativa allo shock”, è finito il tempo del gradualismo e delle mezze misure, principalmente perché “sono finiti i soldi”.
Quel “no hay plata”, scandito dal palco e ripetuto dai suoi sostenitori in piazza, rappresenta la nemesi del populismo kirchnerista, il ribaltamento dell’equazione peronista: “un riequilibrio finanziario che cadrà con tutta la forza sullo Stato e non sul settore privato” ma che implicherà allo stesso tempo enormi sacrifici per la popolazione.
Milei non si nasconde quando va al cuore del suo discorso anti-populista: la sua ricetta sarà uno shock per la società argentina nel breve periodo, in termini di occupazione, salari reali, economia domestica. Ma uno shock necessario per invertire la rotta, prima che le cose comincino a migliorare davvero.
Gli ostacoli
Il rischio principale del progetto Milei risiede proprio nella sua coerenza e trasparenza: è prevedibile che il corporativismo del settore pubblico e dei sindacati gli si abbatterà contro con una violenza inaudita e che le critiche dell’Internazionale progressista lo bersaglieranno senza sosta. Ma dovrà fare i conti anche lo scetticismo dei sedicenti liberali che per anni hanno venduto ricette tecnocratiche come l’interpretazione autentica del pensiero di Hayek.
Rovesciare decenni di socialismo camuffato da giustizia sociale (“l’unica forma di uscire dalla povertà è più libertà”) sarà un’impresa titanica e alle parole dovranno seguire i risultati e una resilienza fuori dal comune. Ma non c’è dubbio che domenica scorsa, per i liberali d’Occidente sempre più sotto assedio, sia arrivata da Buenos Aires una boccata d’aria fresca.