Negoziati per l’adesione di Kiev all’Ue, ecco perché c’è poco da festeggiare

Promesse politiche, ma soldi e armi scarseggiano. L’auto-deterrenza Usa ha prodotto un equilibrio fragile sul terreno, che rischia di rompersi a vantaggio di Putin

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Una delle decisioni più celebrate dell’ultimo Consiglio europeo di questo 2023, forse l’unico successo, è l’avvio dei negoziati per l’adesione all’Ue dell’Ucraina (oltre che della Moldavia). Un passo certamente importante, che conferma il sostegno dei 27 (o meglio dei 26) a Kiev. Ma non un game changer. Un sostegno politico, non militare, che nell’immediato non si tradurrà in alcun vantaggio concreto nella guerra ancora in corso, mentre soldi e armi scarseggiano.

Il veto di Viktor Orban sull’avvio dei negoziati si è trasformato in un’assenza tattica nel momento della decisione, ma il veto ungherese è rimasto sul bilancio pluriennale, di cui fanno parte i 50 miliardi di aiuti finanziari a Kiev. La questione è rinviata al prossimo anno.

I conti senza Putin

Ma il dramma, o la farsa se volete, è un altro. Politici e media occidentali discutono di prospettive di pace, dopo l’ormai riconosciuto fallimento della controffensiva ucraina (il segretario della Nato avverte di “prepararci anche alle cattive notizie”), dando per scontato che tutto sommato questa guerra si possa chiudere in qualsiasi momento vogliamo, basta trovare una formula per congelarla più o meno sulle linee attuali, riconoscendo de facto ma non de jure le conquiste russe, la Crimea e i territori occupati dopo il 24 febbraio 2022. “Spiace, amici ucraini, ma in fondo avete vinto lo stesso”.

Il problema di questo assunto però non è solo convincere Kiev a sacrificare di fatto la sua integrità territoriale, ma dare per scontato che Vladimir Putin si accontenterebbe delle conquiste attuali. E per di più dovrebbe accontentarsi proprio quando vede la pazienza dell’Occidente esaurirsi: “L’Ucraina oggi non produce quasi nulla in termini di armi, tutto arriva dall’Occidente, ma questi regali un giorno potrebbero finire e, a quanto pare, stanno finendo”, ha osservato il presidente russo nella sua conferenza stampa di fine anno.

Un grave errore di prospettiva dare per scontato che Putin accetterebbe di fermarsi solo perché noi ci siamo stancati e che non ne approfitterebbe, invece, per tentare di chiudere la partita. Nella stessa conferenza stampa il presidente russo ha ricordato quali sono i suoi obiettivi in Ucraina ma a quanto pare testardamente ci ostiniamo a non ascoltarlo.

Su Atlantico Quotidiano abbiamo insistito molto su questo punto, fin dall’inizio. Putin vuole riportare l’Ucraina – tutta l’Ucrainasotto l’influenza russa. Questo è il suo obiettivo di fondo, questo c’è dietro la sua retorica, quando insiste su “denazificazione”, “demilitarizzazione” e “neutralità” dell’Ucraina. Il Donbass è un pretesto a cui evidentemente molti hanno finito per credere a tal punto da ritenere che Putin possa accontentarsi.

Il quotidiano tedesco Bild ha pubblicato una mappa, presumibilmente ottenuta da fonti dell’Intelligence tedesca, che fornisce dettagli sugli obiettivi di guerra di Mosca fino al 2026. Putin prevede di occupare entro la fine del prossimo anno i territori a est di Bakhmut, incluse le città di Lyman, Kramatorsk e Pokrovsk, e di spingersi fino a Kharkiv entro il 2026 – un territorio quasi doppio rispetto a quello occupato a partire dal febbraio 2022.

L’auto-deterrenza Usa

Il problema vero qui non è Orban che blocca i 50 miliardi di aiuti, non sono i Repubblicani che in cambio del via libera ai fondi per Kiev chiedono a Biden tutte le loro misure anti-immigrazione per fermare l’invasione di migranti illegali al confine meridionale.

No, il problema vero sta nell’incertezza strategica dell’amministrazione Biden. Mentre si nota una crescente tendenza della Casa Bianca a scaricare sulle resistenze dei Repubblicani le colpe dello stallo, la realtà è che agli ucraini sono state negate le armi necessarie quando, nell’estate-autunno 2022, il momento sembrava propizio per provare a respingere i russi oltre i confini pre-invasione, mentre oggi che hanno molte delle armi che avevano chiesto l’anno scorso, si trovano a corto di uomini e di fronte un esercito russo meglio organizzato e mobilitato.

Come molti analisti hanno osservato, l’Occidente ha dato agli ucraini abbastanza armi per resistere, ma non abbastanza per provare vincere. Insomma, lo stallo della guerra in Ucraina non sarebbe un caso, ma la logica conseguenza delle scelte dell’amministrazione Biden, che non ha mai cercato una sconfitta russa, né mai voluto rischiare una escalation. Una specie di auto-deterrenza che ha sì prodotto un equilibrio di forze sul campo, ma troppo fragile per dissuadere i russi. Un equilibrio che ora rischia di rompersi a tutto vantaggio di Putin.

Non solo riluttanza ed esitazione sulla tipologia di armi da fornire – ricorderete l’insensato dibattito sulle armi “difensive” e “offensive”. Anche una volta assunte le decisioni, sia gli Stati Uniti che l’Europa si sono rivelati incapaci di aumentare la produzione di armi e munizioni in linea con le promesse fatte a Kiev, mentre la Russia – sebbene sotto sanzioni e con l’aiuto di Cina, Iran e Corea del Nord – riesce a produrne di più di tutti i Paesi europei messi insieme.

Il risultato della riluttanza a fornire all’esercito ucraino le armi e le munizioni di cui aveva bisogno per sfondare le linee nemiche, è aver minato la controffensiva prima ancora che avesse inizio.

Sanzioni e linee rosse aggirate

A ciò bisogna aggiungere la mancanza di volontà da parte di Washington di far rispettare le sanzioni contro Mosca anche nei confronti di Paesi terzi e le linee rosse che aveva fissato minacciando “conseguenze”. Non è un mistero che la Russia stia riuscendo ad aggirare le sanzioni.

Non è mistero che il regime di Teheran stia fornendo a Mosca i suoi droni, né che la Corea del Nord e la Cina stiano aiutando i russi a produrre armi e munizioni. Ma né l’Iran, né la Corea del Nord, tanto meno la Cina sono stati sanzionati per questo. Anzi, sono stati premiati dall’amministrazione Biden.

Ue sì, Nato “ni”

Dunque, l’avvio dei negoziati per l’adesione all’Ue non può compensare tutto questo, né può in alcuna misura supplire alla mancanza di un parallelo percorso di adesione di Kiev alla Nato o di credibili garanzie di sicurezza alternative.

Emblematiche le risposte di Zelensky e Biden sul tema qualche giorno fa: Ucraina nella Nato? “Dobbiamo chiederlo al nostro grande amico Biden”, ha girato la domanda il presidente ucraino. E il presidente Usa: “La Nato sarà nel futuro dell’Ucraina, non c’è dubbio”. Si unirà all’Alleanza “quando tutti gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte. Ora dobbiamo assicurarci che vinca la guerra”. Ma come?

Azzarderei di più: messi sui due piatti di una bilancia, da una parte l’avvio dei negoziati per l’adesione all’Ue, dall’altra il sostanziale congelamento del percorso di ingresso nella Nato – fino a dopo la guerra, pare di capire, quando potrebbe non esserci più una Ucraina da far aderire – sembra quasi che Washington si prepari a scaricare Kiev, passando a Bruxelles (e a Berlino ovviamente) il cerino, anzi il candelotto di dinamite acceso.

La situazione comincia a somigliare tremendamente ad uno di quei conflitti in cui gli Stati Uniti, spesso sotto amministrazioni Dem, restano impantanati per mancanza di risolutezza e chiarezza di obiettivi. Il ritiro dall’Afghanistan è ancora negli occhi tutti, di Putin per primo.

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