Ed anche Yahya Sinwar, dopo Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, è stato eliminato da Israele. Tecniche e azioni diversissime, dall’attentato a Teheran al raid aereo nella Striscia di Gaza, fino all’azione delle truppe di terra dentro il rifugio del terrorista. Hamas è stato decapitato. Così come è stato decapitato l’altro potente gruppo terrorista che sta attaccando Israele, Hezbollah, con l’uccisione mirata di Hassan Nasrallah, il suo capo indiscusso. E con l’eliminazione di tutti i suoi quadri, nell’incredibile esplosione simultanea di tutti i loro cercapersone e walkie talkie.
Nessun esercito al mondo è mai riuscito, in un anno, a decapitare i vertici di potenti gruppi terroristi islamici. Pensiamo solo a quanto hanno impiegato gli americani a trovare e uccidere Osama Bin Laden: 10 anni di caccia, senza contare gli anni precedenti all’11 Settembre.
Tutti questi successi hanno comunque un nome che sicuramente non piace: Benjamin Netanyahu. E’ per merito della sua tenacia che Israele sta vincendo la guerra.
Quante volte, prima della guerra, gli analisti politici lo hanno dato per politicamente morto? Eppure, a parte un singolo caso poco duraturo (il doppio governo Bennett-Lapid, durato un anno e mezzo), ha sempre vinto le elezioni e formato i governi. In guerra, lo davano per spacciato dopo il 7 Ottobre. Come ha permesso che Israele venisse colto di sorpresa così platealmente, come nella guerra dello Yom Kippur?
I suggerimenti ignorati
Ma qualunque sia la causa del 7 Ottobre, un’azione che Hamas stava preparando ben prima della formazione del governo Netanyahu, il premier israeliano ha saputo reagire in tempo record. Ha fatto quel che si chiede a un bravo capo di governo: proteggere i suoi cittadini da un’aggressione esterna, ponendo fine al pericolo.
Ha invece ignorato i numerosissimi suggerimenti, interni ed esteri (soprattutto americani) di chi avrebbe voluto che contenesse la sua azione, nel tempo e nello spazio. A un anno di distanza possiamo affermare che Netanyahu aveva ragione, i suoi critici torto.
L’amministrazione Biden aveva fermamente sconsigliato a Israele di intraprendere un’azione militare in grande stile a Gaza: “non fate i nostri stessi errori dopo l’11 Settembre”. Dopo tre settimane di bombardamenti, Netanyahu ha autorizzato anche l’offensiva via terra.
Gli esperti militari americani sconsigliavano vivamente, temendo perdite troppo alte e il rischio che si aprisse immediatamente un fronte a nord, contro Libano e Iran. Eppure, le perdite dell’IDF sono molto contenute (354 morti e 2344 feriti) in un anno di guerra, la Striscia di Gaza è stata occupata da un estremo all’altro. Non si è aperto un fronte nord fino al settembre scorso, dunque solo dopo quasi un anno di guerra, quando ormai Hamas a Gaza è decapitato e ridotto al lumicino.
“Tutti gli occhi su Rafah”
L’estate scorsa “tutti gli occhi erano puntati su Rafah”, secondo un motto fatto proprio dai pacifisti (a senso unico) in Occidente. L’amministrazione americana, anche qui, ha esercitato tutte le pressioni possibili sul governo Netanyahu per impedirgli di entrare nella roccaforte meridionale della Striscia di Gaza, al confine con l’Egitto. Perché era l’ultimo rifugio per i profughi e quindi una battaglia a Rafah sarebbe finita in un eccidio di civili. E perché era al confine con l’Egitto, appunto, quindi in un’area politicamente sensibile, gestita da un alleato storico degli Usa.
Eppure gli israeliani, dopo mesi di pausa e nonostante le pressioni internazionali, sono entrati a Rafah. E cosa vi hanno trovato? Di tutto. Tunnel enormi che collegavano la Striscia di Gaza con l’Egitto per il contrabbando di armi (e si spiega così l’opposizione egiziana all’operazione). Ostaggi israeliani nascosti in mefitiche prigioni sotterranee, sei dei quali sono stati assassinati. E infine lui, il capo di Hamas: Yahya Sinwar, che era nascosto proprio a Rafah, guarda caso. Perché, allora, si voleva impedire a Israele, a tutti i costi, di entrare a Rafah?
La falsa dicotomia guerra-ostaggi
Un altro motivo di contestazione della guerra è la liberazione degli ostaggi. La sinistra israeliana (e quella internazionale che ne ripete gli slogan) è stata abbastanza brava da creare la falsa dicotomia: fare la guerra o liberare gli ostaggi. La guerra a Gaza è scoppiata dopo l’attacco del 7 Ottobre, per rispondere alla continua aggressione di Hamas e per liberare gli ostaggi. Si è deciso di invadere Gaza, specificamente per liberare gli ostaggi.
Eppure è entrato nel senso comune il concetto secondo cui per riportare a casa i rapiti si deve fermare la guerra, mentre se si continua la guerra i rapitori ucciderebbero inevitabilmente i loro prigionieri. Di qui il sillogismo: Netanyahu vuole gli ostaggi morti. Ma Netanyahu è riuscito a riportare a casa, finora, 125 ostaggi su 251 e la guerra va avanti, salvo alcune tregue umanitarie.
Le operazioni mirate
La prima risposta del governo Netanyahu al 7 Ottobre è stata quella di colpire i leader terroristi nemici, ovunque essi fossero. E così è stato, con una serie di raid mirati e azioni dei servizi segreti, ben oltre gli angusti confini di Gaza. Ovunque si sia prospettata l’occasione di uccidere un capo terrorista, a Beirut, a Teheran, o in qualche rifugio mimetizzato nella densa area urbana di Gaza.
E così è stata smentita anche un’altra leggenda nera: quella dei servizi segreti ridotti a polizia politica, per colpire nemici interni, “proteggere i coloni” e trascurare le minacce estere. Sotto il governo Netanyahu, in questo anno di guerra, i servizi e le forze speciali di Israele si sono dimostrati all’altezza dei loro padri leggendari, quelli che condussero operazioni come Ira di Dio (l’uccisione dei leader dell’OLP dopo la strage di Monaco del 1972) e il raid di Entebbe del 1976. La decapitazione di Hezbollah, con l’esplosione simultanea di tutti i loro cercapersone, è già nella mitologia delle operazioni speciali.
Il pregiudizio contro Netanyahu
Tutte queste smentite della realtà indicano chiaramente che esiste un forte pregiudizio ideologico contro Netanyahu, che impedisce di comprenderne il successo. Da cosa deriva questo pregiudizio? Il premier israeliano più longevo nella storia dello Stato ebraico riesce a colpire, trasversalmente, tutti i nervi scoperti della cultura occidentale.
Gli intellettuali “decolonizzati” accettano anche la difesa dello Stato ebraico purché tenga vivo il suo esperimento socialista con cui è nato nel 1948, ma Netanyahu è fieramente conservatore e un sostenitore del libero mercato. Quindi è israeliano, conservatore e liberista al tempo stesso: roba da far scoppiare la testa.
La realtà di Israele è poco compresa, ma viene apprezzata solo se è laica, dominata da governi laicisti che maltrattano gli “ultra-ortodossi”. Ma Netanyahu non si è fatto problemi ad allearsi con partiti religiosi e in questo ultimo governo anche con partiti che sono sia religiosi che nazionalisti, come quelli di Smotrich e Ben Gvir.
In Occidente si accetta Israele, purché combatta i “coloni” che “occupano la terra” dei palestinesi. Ma finché non viene tracciato un confine, con un trattato internazionale, non si può neppure definire legalmente chi sia occupante e chi occupato, per cui Netanyahu ha tutte le ragioni a non ostacolare, anzi incoraggiare, chi va ad abitare in Cisgiordania, che per gli israeliani è la doppia regione storica di Giudea e Samaria.
Se questi sono i motivi dell’odio in tempo di pace, in tempo di guerra Netanyahu è addirittura diventato un ricercato, perché il procuratore capo della Corte penale internazionale ha chiesto un mandato di arresto internazionale, per il premier israeliano così come per tre capi di Hamas (tutti sullo stesso piano). Se Hamas accusa gli israeliani di genocidio e spara cifre inverosimili sulle vittime civili a Gaza, i media internazionali sono pronti a recepire e rilanciare in modo acritico e così anche i tribunali internazionali sollecitati da governi terzomondisti (Sudafrica) e islamici.
Fare la guerra per vincere
Ma in guerra c’è un motivo in più per cui Netanyahu è universalmente odiato. Combatte la guerra alla solita vecchia maniera: per vincere. Mentre in un Occidente post-moderno, dalla guerra di Corea in poi, non si prende più in considerazione neppure il concetto stesso di vittoria. Merito della minaccia nucleare, o dell’affermazione di una cultura relativista, anche in ambito militare e strategico, ma comunque la nostra aspirazione è quella di congelare i conflitti, non di vincerli.
Basti vedere il feticcio dei caschi blu, o delle forze multinazionali di pace, delle missioni di peacekeeping e peace enforcement: falliscono sempre, ma vengono rinnovate, rilanciate, rafforzate. Come in Libano, dove ora i nostri poveri caschi blu sono vittime del fuoco incrociato, in una guerra che è scoppiata di nuovo, nonostante (o proprio per) la loro presenza da forza di interposizione.
Netanyahu vuole vincere. Noi gli chiediamo di “fare la pace”, di fermarsi, di tornare a sedersi attorno a un tavolo. Con chi? Con chi, il 7 ottobre 2023, ha dimostrato che l’unico vero obiettivo dei nemici di Israele è quello di sterminare gli ebrei? Israele lotta per la sua sopravvivenza. E’ questo quel che noi non capiamo (più). E l’incomprensione si trasforma in odio, molto facilmente.