Parole drammatiche quelle di ieri sera del premier israeliano Benjamin Netanyahu, drammatiche quanto inequivocabili su ciò a cui si sta preparando Israele.
In gioco la “nostra esistenza”
Israele è in guerra. Non volevamo questa guerra. Ci è stato imposto nel modo più brutale e selvaggio. Ma sebbene Israele non abbia iniziato questa guerra, Israele la finirà.
Hamas capirà che attaccandoci ha commesso un errore di proporzioni storiche. Esigeremo un prezzo che sarà ricordato da loro e dagli altri nemici di Israele per i decenni a venire.
(…) hanno legato, bruciato e giustiziato bambini. Sono selvaggi. Hamas è l’Isis.
Ci aspettano giorni duri ma siamo determinati a vincere questa guerra per il nostro popolo.
Il premier israeliano ha chiarito che l’obiettivo è la “completa distruzione” di Hamas: “Ogni luogo in cui Hamas è attiva e opera sarà completamente distrutto e noi continueremo a intensificare le operazioni”.
Ma la frase chiave di Netanyahu è un’altra: “è una guerra per la nostra esistenza“. E la scelta della parola “esistenza” non è casuale, ha un significato molto chiaro: in questa guerra Israele non si pone limiti nell’uso del suo potenziale bellico.
Drammatiche e per nulla incoraggianti le notizie arrivate ieri pomeriggio. Il bilancio delle vittime degli attacchi di sabato scorso salito a 900. L’annuncio di Gaza sotto assedio, senza elettricità, carburanti, acqua e cibo. La minaccia di Hamas di “giustiziare un ostaggio israeliano, civile, per ogni bombardamento” e di pubblicare il video dell’esecuzione. La mobilitazione di 300 mila riservisti, l’IDF che istruisce la popolazione a procurarsi un kit di sopravvivenza di 72 ore nei bunker.
Chiaro, come ci spiega anche l’analista Lion Udler in questa intervista, che Israele si aspetta un allargamento del conflitto, una guerra regionale che coinvolga anche l’Iran.
Dissuasione
Ieri sera, in una dichiarazione congiunta al termine di una conversazione telefonica, i leader di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia si sono impegnati a “sostenere Israele nei suoi sforzi per difendere se stesso e il suo popolo” e hanno diffidato “qualunque parte ostile a Israele dal trarre vantaggio da questi attacchi”, assicurando di restare “uniti e coordinati, insieme come alleati e come amici di Israele, per assicurarsi che Israele sia in grado di difendersi”.
L’obiettivo palese è quello della dissuasione, della deterrenza. Per scongiurare l’intervento di Hezbollah e delle altre milizie iraniane, e quindi evitare che il conflitto assuma una dimensione regionale, gli Stati Uniti e i loro alleati fanno sapere di essere pronti a sostenere militarmente Israele e mettono in guardia gli attori ostili nella regione dall’intromettersi. Saranno sufficienti queste parole? Sarà sufficiente il gruppo navale Usa con la portaerei Gerald Ford in rotta verso il Mediterraneo orientale?
La reazione di Teheran
L’incognita infatti è come reagirà Teheran alla prospettiva concreta della distruzione completa di Hamas, se avrà sufficiente paura da accettare di perdere Hamas, un asset fondamentale, o se invece spingerà Hezbollah ad attaccare allargando il conflitto fino ad una potenziale resa dei conti con Israele.
Temiamo che il sacrificio di Hamas, preventivato o meno, sia visto a Teheran nell’ottica di uno scontro finale con Israele, di cui l’attacco di sabato non sarebbe altro che un innesco.
Come ci si arriverebbe? Hamas in grave difficoltà può scatenare un attacco di Hezbollah da nord, già minacciato. Sarà Teheran a decidere se e quando. A quel punto, la risposta di Israele volta a neutralizzare Hezbollah non potrà che portare ad attacchi in Libano e Siria, che a loro volta fornirebbero il casus belli per una reazione diretta di Teheran.
Hezbollah si muove?
Occhi puntati su Hezbollah, dunque, per capire l’evoluzione del conflitto. Molto confusa ieri sera la situazione al confine nord con il Libano, dove le forze di difesa israeliane si sono scontrate con un commando di terroristi, uccidendone tre, dopo che era penetrato in territorio israeliano uccidendo due soldati ferendone altri cinque.
Prima sembrava si trattasse di militanti della Jihad Islamica, poi è emerso che erano di Hezbollah, e infine Hezbollah ha di nuovo negato. Inizialmente Hezbollah aveva smentito una sua operazione, mentre in seguito ha fatto trapelare un ordine di “mobilitazione generale” delle forze in Libano e movimenti di miliziani verso il confine. Chiare provocazioni, per tastare il polso all’avversario, segnali e contro-segnali.
Funzionari dell’intelligence israeliana ritengono che Teheran stia tentando di spingere Hezbollah a unirsi alla guerra contro Israele (mentre alcune forze politiche libanesi sarebbero contrarie) e che l’obiettivo dell’IDF sia quello di sconfiggere Hamas prima che accada, per non trovarsi con più fronti aperti.
Secondo alcune fonti israeliane, Israele avrebbe lanciato un messaggio molto esplicito a Hezbollah attraverso la Francia: nel caso entrasse in guerra, l’IDF distruggerebbe Damasco, prendendo di mira direttamente il dittatore siriano Bashar al-Assad. Inoltre, le navi da guerra Usa interverrebbero a sostegno di Israele. Gli Emirati Arabi Uniti avrebbero avvertito la Siria di non farsi coinvolgere nella guerra tra Israele e Hamas, riporta Axios.
Le piazze occidentali
Saranno giorni e settimane molto difficili, a Gaza ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E anche nelle piazze occidentali, dove sta già tornando a farsi largo il concetto di “reazione sproporzionata” di Israele. Vedremo solo allora se c’è un’intesa solida tra Israele e gli Stati Uniti e i loro alleati su ciò che è necessario fare nella Striscia di Gaza, o se ad un certo punto, come accaduto in passato, questi cominceranno a fare pressioni sul governo israeliano per fermarsi.
Ieri sera, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, John Kirby, è andato un po’ più in là delle parole del segretario di Stato Blinken sul coinvolgimento dell’Iran negli attacchi: “Stiamo cercando con molta difficoltà di vedere se ci sono prove corroboranti che dimostrino che l’Iran ha preso parte a questi attacchi. Ma attenzione, qui c’è un certo grado di complicità“, a causa dello storico sostegno dell’Iran ad Hamas.
Poi, alla Cbs, ha dichiarato che “non c’è alcun piano per mettere boots on the ground americani” in Israele, un’assicurazione non necessaria che somiglia a quella fornita da Biden sull’Ucraina a pochi mesi dall’invasione russa.