Non era un testa a testa: cavallo bianco mangia regina nera

Vittoria netta di Donald Trump. Maggioranza al Senato e forse anche alla Camera. Successo tutto costruito intorno alla sua leadership e alle contraddizioni Dem

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Che gioco affascinante sono gli scacchi! Che metafore della vita sono i singoli pezzi: ecco la regina, la figura più forte di tutta la scacchiera, architrave di tutto lo schieramento. Il suo punto debole (non sono uno scacchista) è la prevedibilità, nonostante il grande campo d’azione. È facile affiancare a questa figura, ed al suo peso, quello della candidata democratica Kamala Harris: potente, ma un po’ scontata.

Al contrario quello del cavallo è il pezzo più affascinante (non per questo necessariamente gradito), perché in grado di scompaginare il campo avversario, “saltando”, gli altri pezzi; mentre la regina ha bisogno di ampi spazi di manovra, il cavallo dà il meglio di sé quando è circondato da altre figure.

Fin troppo facile legare questa figura al candidato repubblicano, il già 45° presidente americano Donald Trump. Ancora in pieno spoglio, verso le ore 4,30 italiane, Elon Musk su “X” ha scritto: “Game, set, match”, felice metafora tennistica. Alle 7,10 di mercoledì 6 novembre (ora italiana) Trump si è aggiudicato 247 voti elettorali e la Harris 210. L’esito non era ancora deciso, anche se gli Stati in bilico stavano virando decisamente verso il Gop.

Questo risultato pare confermato anche dalle elezioni riguardanti la Camera, il Senato e quelle “locali” per scegliere i governatori. In tutte queste elezioni i Repubblicani sono in testa. Il dato rende evidente che l’ipotetica vittoria di Trump non è un fattore episodico, ma il segno di un trend generale. Il partito dell’Asinello paga – al di là di errori tattici e strategici da campagna elettorale – la svalutazione che sta generando un sensibile aumento del costo dei beni di consumo, nonostante una generale crescita economica.

La scelta degli elettori

Se nel 2016 Trump aveva vinto solo grazie ad un maggior numero di voti elettorali, nonostante una netta inferiorità nel voto popolare di circa 3 milioni di voti, ecco che in questo 2024 pare che questo eterno outsider abbia ottenuto la maggioranza anche in questo ambito.

Serviranno ancora diverse ore per avere i dati completi e nei prossimi giorni i commentatori di tutto il mondo si dedicheranno a commentare – sotto differenti punti di vista – il risultato. Fa sorridere vedere, nel Bel paese, i commentatori – quasi tutti su posizioni pro-Harris – baloccarsi in considerazioni che puntano il dito contro le scelte degli elettori, perché queste potrebbero danneggiare l’Europa o, peggio, ancora l’Italia.

Che diamine! Sarà giusto che un elettore americano voti per quello che ritiene essere un suo interesse? Già Toqueville quasi 200 anni fa diceva che nessuno vota “contro se stesso”, o almeno contro quello che ritiene utile. Se la scelta può nuocere ad altri stati (nel caso dell’Italia, l’ipotesi di introduzioni di dazi doganali sul nostro export), sinceramente questa può essere derubricata a danno collaterali.

Bene disse – in Pennsylvania – il candidato alla vicepresidenza J.D. Vance, quando sottolineò che l’America si trovava ad affrontare una crisi che si basava su tre pilastri: prezzi troppo alti, confini troppo fragili, guerre infinite. In queste parole riecheggiano gli slogan del libertarians; un po’ conservatori, un po’ anarchici.

Al centro vi è però la figura di Trump che, nonostante le sue vicende legali (unico ex presidente condannato in un procedimento penale), ha dimostrato di essere (e non solo atteggiarsi) un leader, mentre Harris è apparsa fragile ed incerta, anche per colpa di una campagna elettorale iniziata in corsa, dopo l’ignobile sgambetto inferto al presidente Biden. Trump del leader ha dimostrato di avere la capacità di fare sintesi di molte istanze umanamente anche distanti da lui.

Autogol e contraddizioni Dem

Se il Partito Democratico si chiuse in una sorta di elitismo che spinse Hillary Rodham Clinton, prima, e poi Biden ad apostrofare i supporter di Trump come “branco di deplorevoli” o “spazzatura”, evidenziando i limiti nell’istruzione di questo elettorato, ecco che The Donald ha – evangelicamente – preso queste pietre di scarto e le ha rese pietre d’angolo, l’architrave della sua vittoria. In questo tranfert politico ecco che il partito “di sinistra” ha continuato a costruire la sua immagine sulla lotta per i diritti civili, così come avviene dalla fine degli anni Sessanta, abbandonando, progressivamente, i diritti sociali.

Ecco che il tandem Trump-Vance ha raccolto da terra questa carta abbandonata e ne ha fatto proposta politica. La classe operaia della Rust Belt, abbandonata dalle politiche sociali dei governo democratici e repubblicani delle grandi famiglie di potere (Clinton, Bush, Obama ecc), così ben immortalata in Hillbilly Elegy – libro memoria di Vance – ha trovato nel tycoon, figura volgare e fastidiosa per le sensibilità europee ed italiane il loro campione.

La vittoria di Trump si è costruita intorno alle contraddizioni democratiche: i diritti civili, facile e poco costoso oggetto di strategia politica, ha il suo punto fragile nella disarmonicità di riconoscere diritti a tutti su tutto. È gioco forza che non è detto che tutti si riconoscano in tutti questi diritti, spesso configgenti tra di loro.

Non è un caso che i maschi della comunità afro-americana abbiano mostrato diffidenza per la Harris, anche e soprattutto dopo che Obama li aveva redarguiti per il loro istintivo machismo e la supposta difesa del patriarcato. Illusorio per i Democratici pensare che gli immigrati fossero tutti solidali con la Harris, che peraltro, in campagna, ha affermato la necessità di mettere un freno all’immigrazione clandestina.

Trump ha trovato facile appoggio in questi afroamericani e nei latinos, ormai integrati, timorosi che una nuova massa di immigrati avrebbe influito negativamente sul mercato del lavoro, soprattutto nelle occupazioni che non richiedono particolari specializzazioni. Che i “poveri” diventino le guardie bianche di una controrivoluzione sociale è un fatto assodato dalla storia.

L’isolazionismo

Nella lettura nostrana di questo bipolarismo non mite ecco che ci si sorprende dell’isolazionismo che pare ispirare la politica estera di Trump e della sua diffidenza verso gli affari europei. Questa non è invenzione del vincitore delle elezioni presidenziali 2024, ma un continuum che è parte della tradizione politica americana dal farewell address di George Washington del 1797.

Le successive dottrine americane dell’“America agli americani” (proto-imperialismo continentale) di Monroe, del Manifest Destiny, portano l’America ad isolarsi. Già il citato Tocqueville disse che l’America (e la Russia) poteva costruire il suo “impero”, solo espandendosi attraverso la sua piattaforma continentale. Così fu fino alla Seconda Guerra Mondiale. Ottant’anni sono molti, ma non sufficienti a modificare l’abito mentale di una nazione.

Tutte considerazioni che verranno meglio analizzate in seguito. Il dato che resta è che sulla scacchiera della storia e della politica americana il cavallo bianco ha mangiato la regina nera, dando scacco allo stanco re.

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