Non solo Mar Rosso, rischia di esplodere la crisi del Corno d’Africa

Un accordo di accesso al mare tra Etiopia e Somaliland, stato non riconosciuto, fa infuriare la Somalia e rischia di far deflagrare l’ennesimo conflitto

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hassan sheikh mohamud_aljaz

Tutti guardano al Medio Oriente, al Mar Rosso, al Golfo di Aden, alla complessa crisi in atto, ai suoi protagonisti: Israele sotto attacco, e l’Occidente, il mondo libero con lui, e i due islam, sunnita e sciita, nemici da 15 secoli, che lì ancora una volta si scontrano. Così sta passando inosservata la nuova, preoccupante crisi apertasi all’inizio del 2024 nel Corno d’Africa, sulle rive occidentali del Mar Rosso.

L’accesso al mare

Tutto è incominciato il 1° gennaio. Quel giorno Abiy Ahmed Ali, il primo ministro dell’Etiopia, e Musa Bihi Abdi, il presidente del Somaliland, hanno firmato un accordo preliminare con cui Abdi affitta alla marina etiope per usi commerciali e militari quasi 20 chilometri di accesso al mare per la durata di 50 anni in cambio di quote della Ethiopian Airlines, la più grande compagnia aerea africana.

L’Etiopia è priva di accesso al mare dal 1991, l’anno in cui, al termine di una guerra durata 30 anni, l’Eritrea è diventata uno stato indipendente privando Addis Abeba del porto di Assab. Da allora per le sue attività di importazione ed esportazione l’Etiopia ricorre al porto di Gibuti, il piccolo stato situato all’inizio del Golfo di Aden, al costo di oltre un miliardo di dollari all’anno.

Lo scorso ottobre Abiy aveva messo in allarme i Paesi vicini con sbocco al mare dichiarando, durante una cerimonia ufficiale, che il confine naturale dell’Etiopia è il Mar Rosso. La mancanza di porti, aveva proseguito, “impedisce all’Etiopia di avere il posto che le spetterebbe. 150 milioni di persone non possono risiedere in una prigione geografica. Che piaccia o no, la prigione esploderà. Non è corretto né giusto che l’Etiopia non abbia accesso al mare; se non lo avrà, è questione di tempo, ma lotteremo”.

L’accordo con il Somaliland

Suonava come una dichiarazione di guerra. Invece il vitale accesso al mare per il suo Paese Abiy l’ha trovato con un accordo. Sembrerebbe una soluzione ragionevole e civile, se non fosse che il Somaliland non è uno stato sovrano, nessuno ne riconosce l’esistenza. Il territorio che porta quel nome si trova nella Somalia nord occidentale e i suoi abitanti si sono auto proclamati indipendenti nel 1991, anno in cui una coalizione di clan ha sconfitto il dittatore Siad Barre dando inizio a una feroce guerra per la supremazia.

Il Somaliland è una democrazia parlamentare, secondo alcuni osservatori addirittura la più solida dell’Africa orientale. Ha un sistema politico multipartitico composto da tre rami indipendenti – legislativo, esecutivo e giudiziario – tiene regolarmente elezioni parlamentari e presidenziali, ha una forza di polizia, una propria valuta e una bandiera. La sua economia è in crescita e il Paese è considerato una sorta di oasi di pace, rispetto alle violenze che affliggono il resto della Somalia e altri stati della regione, l’Etiopia, il Sudan e il Sudan del Sud. Tuttavia nessuno lo riconosce come stato indipendente, né le Nazioni Unite né l’Unione Africana né singoli stati.

Quindi Abiy intende affittare un pezzo di territorio che ufficialmente appartiene alla Somalia. Non solo, sembra che abbia intenzione di sostenere gli sforzi del Somaliland per ottenere il riconoscimento internazionale, se non addirittura, stando ad alcune dichiarazioni, essere il primo stato a riconoscerlo.

La reazione della Somalia

La reazione immediata della Somalia era scontata. Il 2 gennaio il governo somalo ha tenuto una riunione di emergenza. Subito dopo il primo ministro Hamza Abdi Barre ha convocato una conferenza stampa durante la quale ha detto che l’accordo non aveva valore, ha invitato la popolazione a mantenere la calma e ha chiesto sia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che all’Unione africana di convocare delle riunioni per discutere la questione.

“La Somalia appartiene ai somali”, ha dichiarato il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud in un appassionato discorso pronunciato in Parlamento quello stesso giorno. Poi ha definito l’accordo un atto di aggressione, “un’aperta interferenza con la sovranità della Somalia” e ha aggiunto: “proteggeremo ogni centimetro della nostra terra sacra e non tollereremo i tentativi di cederne alcuna parte”.

Mohammud sa bene che in realtà il governo somalo da solo non è in grado di proteggere neanche la capitale Mogadiscio e le proprie sedi. Dipende tuttora per la sua sicurezza e per la sua stessa esistenza dai finanziamenti e dagli aiuti militari stranieri, senza i quali sarebbe sopraffatto dal gruppo jihadista al Shabaab, anche così a stento contenuto nelle vaste regioni meridionali conquistate nel 2006 e in grado di mettere a segno continui attentati nella capitale.

Il sostegno internazionale alla Somalia

Per difendere il sacro suolo ha bisogno del sostegno internazionale, e finora almeno a parole lo ha avuto. L’Unione africana e l’Unione europea per prime hanno esortato al rispetto della sovranità, unità e integrità territoriale della Somalia. Anche l’Organizzazione della cooperazione islamica e la Lega Araba hanno preso le difese della Somalia. Quanto ai Paesi, gli Stati Uniti si sono schierati con la Somalia contro l’Etiopia, dicendosi molto preoccupati e sollecitando il ricorso a canali diplomatici per evitare una escalation della tensione nella regione.

La Turchia, che svolge un importante ruolo economico e militare in Somalia, si è spinta oltre promettendo “il suo impegno per l’unità, la sovranità e l’integrità territoriale della Somalia”. La reazione più minacciosa è arrivata dall’Egitto. Dopo aver assicurato per telefono al presidente Mohamud la ferma posizione del suo Paese a fianco della Somalia, il presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi lo ha poi incontrato e in quell’occasione ha dichiarato: “L’Egitto non permetterà a nessuno di minacciare la Somalia o di comprometterne la sicurezza. Non tentate l’Egitto, né tentate di minacciare i suoi fratelli soprattutto se gli chiedono di intervenire”.

Mancano ancora, fondamentali per l’evolversi della situazione, la posizione dell’Eritrea e del Kenya, che per ora ha mantenuto un basso profilo evitando, così come l’Uganda, commenti ufficiali. Al momento gli unici ad approvare la decisione dell’Etiopia sono stati gli Emirati Arabi Uniti, forti alleati di Abiy.

Rischio conflitto

Consapevole dell’importanza di mostrarsi determinato e forte agli occhi dei propri connazionali e, soprattutto, rassicurato dalle reazioni internazionali, il presidente Mohammud ha richiamato il proprio ambasciatore ad Addis Abeba, ha firmato un decreto che annulla l’accordo e ha alzato i toni. Ha descritto l’Etiopia come “il nemico del suo Paese” e ha invitato i giovani somali “a prepararsi per la difesa del nostro Paese”.

Decine di migliaia di persone hanno risposto unendosi alle proteste contro l’accordo organizzate nella capitale. “Difenderemo il nostro Paese – ha detto Mohammud il 12 gennaio – lo difenderemo con tutti i mezzi e cercheremo il sostegno di ogni alleato disposto a difenderci. Abbiamo già resistito alla loro invasione in passato. Li abbiamo sconfitti in passato e lo faremo ancora”.

È chiaro che l’Etiopia non può permettersi di fare un passo indietro e rinunciare al suo accesso al mare e che la Somalia non può permettersi di accettare l’accordo tra Etiopia e Somaliland. La crisi tra i due Paesi potrebbe degenerare in un conflitto che destabilizzerebbe ulteriormente i Paesi dell’Africa orientale, già quasi tutti alle prese con serie difficoltà economiche e politiche.

Le altre crisi

Della Somalia si è già detto. L’Etiopia, un tempo tra i più promettenti Paesi africani, è andata in default alla fine del 2023. La guerra combattuta dal 2020 al 2022 per impedire ai tigrini di riprendere il potere ha causato 600.000 morti e una crisi umanitaria che adesso si è estesa alla regione Amhara, in guerra contro il governo dall’aprile 2023.

Quanto agli altri Stati della regione, tutti gli sforzi internazionali per fermare la guerra scoppiata in Sudan da quasi un anno sono finora falliti. I due avversari, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, leader di un esercito paramilitare, le Rapid Support Forces, e il generale Abdel Fatah Abdelrahman Al-Burhan, di fatto presidente del Paese dal colpo di stato militare del 2021, sono determinati a vincere, a tutti i costi. I combattimenti per mesi concentrati nella capitale Khartoum e nella provincia orientale del Darfur, di recente si sono estesi ad altre regioni.

Il Sudan del Sud, nato dalla secessione dal Sudan nel 2011, non ha ancora risolto completamente la lotta di potere tra le due principali etnie, i Dinka e i Nuer, sfociata nel 2013 in una feroce guerra. Dal 2015 il processo di pace è in stallo e intanto aumentano gli episodi di violenza interetnica.

Persino il Kenya, che confina sia con l’Etiopia che con la Somalia ed è considerato il Paese più stabile dell’Africa orientale, sta attraversando un momento difficile. La vittoria nel 2022 di William Ruto, l’attuale presidente, non è mai stata accettata dagli avversari. Il pesante carico del debito, la pressione sulle riserve valutarie e la corruzione diffusa stanno raggiungendo livelli quasi insostenibili. Potrebbe essere uno dei prossimi stati africani ad andare in default.

Nessuno di questi Paesi è in grado di far fronte a ulteriori crisi e neanche l’Eritrea, altro vicino di casa dell’Etiopia, che deve l’assenza di conflitti interni al fatto di essere governato con mano ferma e dura dal suo primo e unico presidente, Isaias Afewerki, l’uomo che ha guidato la guerra d’indipendenza. Afewerki ha istituito un regime monopartitico altamente centralizzato. Il Paese non è mai andato alle urne.

Uno spiraglio

Unico elemento positivo è stata una dichiarazione fatta il 21 gennaio dal consigliere per gli affari di sicurezza nazionale etiope, Redwan Hussien. L’Etiopia e la Somalia, ha detto, “non sono solo vicini che condividono un confine, ma sono nazioni fraterne che condividono una lingua, una cultura e un popolo comuni. Il nostro destino è intrecciato e inseparabile”. Ma lo ha scritto su X. Finora di passi ufficiali, concreti per una composizione della crisi non si ha notizia.

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