Occhio all’egemonia navale di Pechino nel Pacifico

Mentre la Us Navy smantella, i cantieri navali cinesi sfornano nuove navi da guerra a ritmo continuo: il bilancio è già 370 a 299. Allarme dei Paesi vicini

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Che la flotta Usa abbia ormai perduto l’egemonia nel Pacifico a favore di quella della Repubblica Popolare Cinese è ormai cosa nota. Meno noto è, invece, il fatto che Washington faccia poco o niente per rovesciare questa pericolosa situazione.

Differenze Usa-Cina

C’è, tra le due superpotenze, una differenza fondamentale. Gli americani non procedono al riarmo a causa dell’enorme debito pubblico Usa, ben superiore a quello italiano. L’amministrazione Biden, inoltre, deve fare i conti con un Congresso nettamente spaccato (come, del resto, l’intero Paese).

Anche la Cina ha un deficit pubblico stratosferico. Tuttavia, non essendo un’economia di mercato, e non esistendo alcuna opposizione, il Partito comunista può ignorare tranquillamente il problema e promuovere una corsa agli armamenti che non sembra avere limiti.

Ciò spiega perché Pechino, nonostante il parere contrario formulato dal Tribunale internazionale dell’Aja, continua a considerare le acque del Mar Cinese Meridionale come cosa propria, respingendo ogni tentativo di garantire la libertà di navigazione in questo tratto di mare così strategico.

A fronte di tale situazione, la US Navy progetta di smantellare 19 navi da guerra entro il 2025, inclusi alcuni sommergibili atomici (un settore in cui gli Usa hanno ancora il predominio). In cambio è previsto il varo di soli sei nuovi vascelli nello stesso periodo.

I cantieri navali cinesi, invece, sfornano nuove navi a ritmo continuo, facendo pendere sempre più la bilancia a favore di Pechino. Il risultato è che, alle 299 navi da guerra americane, la Repubblica Popolare ne contrappone ora 370, e un’agenzia governativa Usa prevede che diventeranno 435 alla fine del decennio.

L’allarme degli alleati Usa

Si comprende quindi l’allarme delle nazioni che gravitano nell’orbita occidentale. Non si tratta soltanto della solita Taiwan, ma anche delle Filippine, dove il presidente Ferdinand Marcos jr. ha rovesciato la politica filo-cinese del suo predecessore Rodrigo Duterte schierandosi di nuovo con gli Stati Uniti.

La politica di Xi Jinping e del suo gruppo dirigente è sempre la stessa. Ignorando il verdetto del Tribunale dell’Aja, i cinesi si muovono nelle acque internazionali come se fossero a casa loro e procedono a costruire sulle isole dell’area basi militari fortificate. È accaduto, per esempio, nell’atollo di Panganiban, vicino alle Filippine e situato per l’appunto in acque internazionali.

Esercito e marina cinesi l’hanno occupato e trasformato in una base navale fortificata con pista di atterraggio e batterie di missili a difesa. Numerosi gli scontri tra vascelli cinesi e filippini, il che ha indotto il presidente Marcos a dichiarare che, nel caso morissero marinai filippini, Manila si sentirebbe autorizzata a reagire militarmente. Vista la situazione, però, dichiarazioni simili paiono piuttosto velleitarie.

Filippine e Usa hanno firmato un accordo che contempla l’intervento americano nel caso l’alleato venisse attaccato. Il problema è che la superiorità numerica della flotta di Pechino rende tutto più difficile e, purtroppo, a Washington non si vedono segnali di una inversione di tendenza.

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