Viste tutte le menzogne che ci capita di leggere e ascoltare sulle elezioni presidenziali che si tengono oggi in Brasile e, in genere, sul Brasile, cerchiamo di rimettere ordine e raccontare qualcosa di serio, e soprattutto di vero.
Si tratta di cose che non leggerete mai da nessuna parte qui in Italia perché tutto ciò che viene pubblicato è informazione, o meglio disinformazione fatta circolare dai media brasiliani, che sono, chi più chi meno, la voce della sinistra brasiliana, la quale gode sui media di una egemonia praticamente totale.
I corrispondenti stranieri dal Brasile, peraltro, assumono come verità rivelata tutto ciò che esce dai giornali, dalle agenzie e dalle tv della sinistra, essendo loro stessi quasi tutti di sinistra.
Ma ora occupiamoci dei candidati e della loro politica.
Luiz Inácio Lula da Silva
Lula è un vero, autentico delinquente. Non solo ha rubato spudoratamente ed è stato per questo condannato a 26 anni di carcere – altro che “è stato assolto da tutte le accuse”, cara Gabanelli – prima che la Corte costituzionale di Brasilia annullasse i suoi processi per vizi di forma, lasciando inalterate le responsabilità di Lula, ma è fortemente sospettato di essere il mandante di crimini anche peggiori. Fra questi due fanno gridare allo scandalo: il primo è un omicidio, l’altro un tentato omicidio politico.
L’omicidio è quello di Celso Daniel, assassinato nel 2002, ad alcuni mesi dalle elezioni che portarono Lula alla sua prima presidenza. Daniel era il sindaco di una delle grandi città-satellite di San Paolo, Santo Andre (quasi un milione di abitanti, per intenderci), ed era un esponente del partito di Lula, il Partido dos Trabalhadores (PT).
Da sindaco, Daniel era parte essenziale di un sistema di corruzione legato alla raccolta dei rifiuti della sua città, gestito in modo truffaldino dal Comune di Santo Andre per finanziare il PT. Ad un certo punto Celso Daniel, a detta della sua famiglia, aveva deciso di dissociarsi dal sistema criminoso e preparato un dossier in cui spiegava per filo e per segno come funzionava. Fu allora che il PT decise di liberarsene.
È bene mettere in chiaro che Santo Andre è un grosso comune situato a pochissima distanza da San Bernardo, la città di Lula, e da lui molto ben conosciuto e controllato: nulla si faceva allora, né si fa oggi, senza il consenso di Lula, da decenni capo indiscusso del PT. Una vera e propria mafia politica, non molto dissimile da quella che conosciamo qui in Italia.
La polizia avviò le prime indagini e tutti i primi elementi sembravano indicare che si fosse trattato di un crimine comune: il sindaco era stato sequestrato da una banda di delinquenti di una favela di San Paolo e alla fine ucciso con otto colpi di pistola.
Ma le cose non erano così chiare. Nei mesi seguenti accaddero fatti che non possono essere considerati delle semplici coincidenze, a meno di voler credere che gli asini volino: ben sette persone coinvolte nella vicenda morirono o furono uccise in circostanze e per motivi “inspiegabili”.
Fra di essi uno dei sequestratori, un custode della casa dove fu portato il sequestrato, un cameriere che aveva servito Celso Daniel la sera prima di essere ucciso, perfino il testimone dell’assassinio di questo cameriere, ucciso pochi giorni dopo il cameriere con venti colpi di pistola alla testa.
Non solo: l’incaricato dell’agenzia di pompe funebri che riconobbe il corpo di Celso Daniel morto e il consulente che attestò che sul corpo era stata praticata la tortura prima di ucciderlo. Tutti morti in circostanze misteriose o ammazzati.
Non basta: non “sembra” un giallo, ma lo è. Un giallo forse inimmaginabile per noi, che dobbiamo tornare coi ricordi alla Piovra, a Falcone e Borsellino, forse.
Sentite ancora. La dottoressa Eliana Vendramini, magistrato del Tribunale di San Paolo che investigava sull’assassinio di Celso Daniel, fu vittima di un tremendo incidente automobilistico in un’autostrada urbana di San Paolo: la sua vettura blindata privata cappottò tre volte dopo essere stata urtata non accidentalmente da un’altra macchina che fuggì senza dare soccorso.
Alla luce di tutte queste misteriose “coincidenze” la famiglia di Celso Daniel richiese più volte la riapertura del caso, non credendo all’ipotesi di criminalità comune ma sostenendo che si trattava di un caso di omicidio politico.
Nulla accadde fino al 2013, e poi al 2019, quando Marcos Valerio, il pubblicitario del PT organizzatore delle campagne elettorali di Lula, dichiarò al magistrato che l’ex presidente era uno dei mandanti dell’omicidio di Celso Daniel.
Ad oggi, incombe il pesante “sospetto”, corroborato da testimonianze e prove, non soltanto deduzioni logiche, che di omicidio politico si trattò, non di criminalità comune. Tutti coloro che non sono schierati ideologicamente dalla parte della sinistra ritengono che si trattò di un omicidio politico e che Lula fosse il mandante.
Se oggi Vladimir Putin è ritenuto, a ragione, il mandante di alcuni omicidi apparentemente inspiegabili di suoi oppositori, da Berezovsky e Nemcov alla Politkovskaya, anche Lula non può non essere ritenuto il mandante dell’omicidio di Celso Daniel.
Fra i tentati omicidi, quello di quattro anni fa, quando, a poche settimane dalle elezioni, Bolsonaro fu accoltellato in mezzo alla folla da un soggetto un po’ ambiguo che, senza alcuna ragione plausibile ma per un “attacco di follia”, tentò di far fuori quello che di lì a poco sarebbe diventato il presidente del Brasile.
Ci riuscì quasi, perché Bolsonaro rimase fra la vita e la morte per molti giorni, e ancora oggi porta nel suo corpo le conseguenze di quell’attentato. La cosa più grottesca è che a difesa di questo criminale, nullafacente e quasi analfabeta, si schierarono buona parte degli studi legali che difendevano Lula nei suoi processi paralleli.
Chi avrebbe pagato questi costosissimi avvocati? Non certo un poveraccio che non poteva pagarsi neppure la carta bollata. Due più due fa quattro. Scandaloso che la Gabanelli abbia lanciato l’insinuazione di un tentato omicidio, pochi giorni fa, di un militante del PT, senza neppure citare l’accoltellamento di Bolsonaro nel 2018.
Jair Bolsonaro
Per Jair Bolsonaro la questione è molto più semplice. Se Lula è un criminale, Bolsonaro è un ignorante, con in testa poche idee ma confuse. Tuttavia, ha almeno una grande virtù: sa di esserlo e si affida a persone che, al contrario di lui, la sanno lunga e hanno dimostrato di avere ottime capacità di governo.
È bigotto? Si, è vero, è bigotto, ma in un Paese come il Brasile essere bigotti equivale ad essere libertini in Italia.
È un militare? Sì, e allora? È in Parlamento da trent’anni e si è sempre comportato da perfetto democratico.
Ha una cultura da caserma? Sì, vero, ha una cultura da caserma, ma in un Paese in cui il numero di omicidi e di crimini è così alto, con interi pezzi delle principali metropoli occupate militarmente dalla criminalità armata e dai trafficanti di droga, un po’ di “cultura da caserma” e di maggiore accento sulla sicurezza, è ciò che ci vuole.
È personalmente contrario all’aborto, alla droga, etc…? Sì, lo è, e sbaglia nel non capire l’importanza della “legalizzazione”, ma un conto è legalizzare in Italia, altra cosa legalizzare la droga in città come Rio in cui esistono 150 favelas, ossia 150 grandi centri diffusi di spaccio di droga non controllati dallo Stato, perché la polizia non è in grado di entrarvi se non con l’aiuto dell’esercito.
Legalizzereste la droga a Roma se il Quarticciolo, Tor Bella Monaca, San Basilio, Pavona, e altre cento borgate fossero nelle mani di trafficanti armati come un esercito illegale capace di rispondere con le armi più sofisticate agli eventuali interventi della polizia?
Il “progressismo” di Lula sui diritti civili
D’altronde, nemmeno Lula, in 14 anni di governo della sinistra – 14 anni, non mesi! – ha legalizzato l’aborto, la maconha, la marijuana, o ha fatto un sia pur timido tentativo di legalizzare, magari andato a vuoto per l’opposizione. Niente di niente, nada de nada. Il tema droga, come il tema aborto, non è mai stato nell’agenda di Lula e del PT.
Fine dell’ipocrisia, per favore. In Brasile, dopo 14 anni consecutivi e larghe maggioranze in Parlamento, pagate profumatamente grazie al metodo di corruzione detto del “Mensalao” (il governo del PT pagava mensilmente profumati stipendi a decine di membri dell’opposizione per assicurarsene i voti: tutto provato, tutti processati, tutti condannati), i governi lulisti non hanno introdotto una sola riforma libertaria in tema di diritti civili.
Resta proibito l’aborto, che in Brasile è legale solo in caso di rischio di morte della donna, stupro e irreversibili malformazioni dell’encefalo nel feto. Persino l’aborto di una bambina di 11 anni è considerato un “omicidio”.
Insomma, il presunto primato del “progressismo” della sinistra brasiliana sui diritti civili importanti, come droghe e aborto, rispetto al bigottismo di Bolsonaro, è chiaramente una bufala. Resta il neo progressismo “gender” che la sinistra vorrebbe divulgare nelle scuole per indottrinare anche i bambini, ma personalmente avrei dei problemi a definirlo un “diritto” civile.
Credo che sia la società a sperimentare gradualmente alcune rivoluzioni dei codici morali e degli stili di vita, e a metabolizzarle o rigettarle.
Con Lula la “venezualizzazione” del Brasile
Ma perché un grande Paese come il Brasile possa pensare di riformarsi e trovare adeguate soluzioni sul piano dei “diritti” civili, è necessario che non venga rigettato nella miseria più assoluta da governi come quelli della sinistra lulista, che guardano a Caracas e a L’Avana come stelle di riferimento politico, economico e culturale – oltre che come destinatari di generosi finanziamenti da parte dei contribuenti brasiliani, che hanno visto per molti anni i loro soldi spediti in soccorso del barcollante regime castrista.
Le prospettive di un governo Lula sono quelle di una progressiva “venezuelizzazione” del Paese, di un sempre più angusto perimetro di libertà per i cittadini, di un azzeramento delle libertà politiche e indurimento di una egemonia mediatica già oggi pervasiva.
Per tutto questo, malgrado la sua personale modestia, un presidente come Bolsonaro si fa largamente preferire ad un malaugurato ritorno in sella di quello che in Brasile viene definito l’“ex presidiario”, ossia l’“ex galeotto”.
Bolsonaro ha risollevato, grazie al suo ministro dell’economia, Paulo Guedes (allievo di Milton Friedman e amico del compianto Antonio Martino), l’economia di un Paese messo in ginocchio dai precedenti governo Lula e Dilma, e tirato fuori dalle sabbie mobili in cui era stata cacciata dai suoi dirigenti petisti e lulisti la più grande impresa brasiliana, il colosso Petrobras, una delle più importanti aziende del mondo nel ramo del petrolio e dell’energia.
Il caso Petrobras
La ricchissima Petrobras che, grazie ai giacimenti di petrolio scoperti sotto i fondali dello sterminato litorale brasiliano, da Bahia a Santa Catarina, al sud, aveva raggiunto record impensabili di capitalizzazione e di ricavi. E che il partito di Lula ha letteralmente spolpato, succhiando enormi tangenti per affari andati a male e rubando sui fondi neri costituiti allo scopo di finanziare politici e campagne elettorali del PT.
La Petrobras, l’obiettivo più popolare degli investimenti di decine di milioni di brasiliani, rimasti in braghe di tela dopo il disastro causato dalla corruzione del PT e dei suoi dirigenti.
La Petrobras, onnipresente nel patrocinio e nel finanziamento a fondo perduto di ogni genere di attività “culturale” e “artistica”: dal finanziamento di mostre, festival, film, a quello di teatro, show musicali, produzione di dischi, divulgazione di libri, ecc. ecc. Ovunque, negli anni dei governi di sinistra, giganteggiava la Petrobras e il suo patrocinio sempre generoso.
Capite oggi perché cantanti, attori, artisti di ogni tipo, si fanno fotografare con la “L” di Lula nel social e nei loro siti?