La Corte penale internazionale ha fatto una parziale marcia indietro, sul mandato di cattura che ha emesso il 21 novembre su Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, rispettivamente premier ed ex ministro della difesa di Israele. Forse non tanto per il clamore che ha suscitato, quanto perché, anche i magistrati che compongono la Corte, devono essersi resi conto che qualcosa non andava.
Un impianto fragile
Così, come ha comunicato il 28 novembre il portavoce della corte dell’Aia, Fadi El Abdallah, il procuratore generale, Karim Asad Ahmad Khan, potrebbe chiedere alla Corte di revocare i mandati d’arresto. Ma solo se i magistrati israeliani dovessero indagare in modo approfondito su Netanyahu e Gallant.
Una proposta indecente, per uno Stato indipendente e sovrano, che rivela un impianto fragile: se ora si torna a dare credito alla magistratura israeliana, perché non farlo prima? Se la Corte penale internazionale è un organo complementare, non sostitutivo, perché interviene in Israele, che è uno Stato di diritto con una magistratura indipendente dal governo? Se ora la Corte la invita a indagare approfonditamente, vuol dire che il mandato di cattura è stato spiccato senza prima condurre un’indagine approfondita?
Sono punti talmente deboli di questa accusa che viene da chiedersi come mai i mandati siano stati emessi. “Ma sono del mestiere, questi?” chiederebbe un Checco Zalone. I nomi (Fadi El Abdallah, Karim Asad Ahmad Khan…) possono già far pensare a un forte pregiudizio contro lo Stato ebraico. Ma non vuol dire, perché anche tanti non musulmani sono ostili a Netanyahu e al contempo ci sono intellettuali arabi musulmani in galera con l’accusa di essere “servi dei sionisti”. La tesi del pregiudizio islamico, che non è prova di fondamento, non è completa. C’è dell’altro sotto questo atteggiamento discriminatorio della Corte.
Il problema è l’Onu
Il problema potrebbe essere proprio l’Onu. Premessa doverosa: la Corte penale internazionale non è un organismo delle Nazioni Unite (come lo è la Corte internazionale di giustizia) ed ha giurisdizione solo negli Stati firmatari dello Statuto di Roma che l’ha istituita, fra cui anche l’Italia. Però è fortemente influenzata dall’Onu.
Come spiega Prina Shavid Baruch, docente presso la Facoltà di Legge dell’Università di Tel Aviv, intervistata da Libero il 28 novembre: “Entrambe le Corti (Corte internazionale di giustizia e Corte penale internazionale, ndr) si affidano molto ai rapporti dell’Onu o di ong che spesso tendono a rappresentare un quadro molto unilaterale. Tali resoconti hanno un ruolo centrale nel rappresentare la crisi umanitaria a Gaza, che esiste, come se fosse intenzionalmente voluta da Israele”.
All’Onu, le idee dominanti su Israele sono continuamente espresse nelle condanne unilaterali del segretario generale, Antonio Guterres. Quello che all’indomani del 7 Ottobre, a cadaveri israeliani ancora caldi, disse che il pogrom “non viene dal nulla”. Più esplicita ancora è l’inviata speciale per i Territori occupati palestinesi, Francesca Albanese, la stessa che loda impunemente meme in cui si paragona Netanyahu a Hitler e che è fresca di pubblicazione di un rapporto in cui il titolo dice già tutto: “Il genocidio come cancellazione coloniale”. La Albanese definisce Israele come un “violatore seriale del diritto internazionale”. E arriva a relativizzare anche il pogrom del 7 ottobre: “Le vittime del 7 ottobre non sono state uccise a causa del loro giudaismo, ma in risposta all’oppressione di Israele”.
Le idee dell’italiana Albanese sono condivise anche dall’austriaco Volker Turk, Alto commissario per i diritti umani dell’Onu che, nel corso dell’ultimo anno di guerra è stato in prima fila ad accusare Israele, a senso unico. Già all’indomani del 7 Ottobre, all’inizio della risposta militare israeliana a Gaza, dichiarava: “c’è un rischio maggiore di crimini di atrocità a Gaza”. Dove per “crimini di atrocità” si intende: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. “I miei colleghi umanitari hanno descritto la situazione come apocalittica. In queste circostanze, il rischio di crimini di atrocità è molto elevato”.
Il rapporto del “Comitato speciale per le indagini sulle pratiche israeliane” sostiene le accuse di genocidio. Il documento parla di “seri sospetti di violazioni delle leggi internazionali umanitarie e dei diritti umani” e “la possibilità di genocidio a Gaza e di un sistema di apartheid in Cisgiordania”. Il comitato è composto da rappresentanti di Stati quali Malesia, Senegal e Sri Lanka, storicamente ostili a Israele.
Il caso Nderitu
Chi non aderisce a questa narrazione, non ha vita facile all’Onu. È il caso, proprio di questa settimana, del quasi-licenziamento di Alice Wairimu Nderitu, del Kenya, consulente speciale per la prevenzione del genocidio delle Nazioni Unite. In carica dal 2020, nel 2022, in tempi non sospetti (un anno prima dell’inizio della guerra mediorientale) il suo ufficio aveva pubblicato un rapporto in cui si invitava tutte le agenzie dell’Onu a usare il termine “genocidio” in modo rigoroso.
È genocidio quel crimine di massa che punta all’eliminazione, in tutto o in parte, di un gruppo etnico e religioso, è un’azione pianificata ed è intenzionale. Inutile dire che la guerra a Gaza non rientra nella casistica. Vi rientrano, invece, il genocidio degli armeni e la Shoah, il genocidio dei tutsi (1994) e anche le pulizie etniche ancora in corso nel Sudan, tutti esempi fatti dalla Nderitu.
Ebbene: come ha scoperto il Wall Street Journal, non è stato rinnovato il suo contratto. Salvo interventi diretti di Guterres, lascerà le Nazioni Unite. Come constata il prestigioso quotidiano: “I contratti con le Nazioni Unite vengono spesso rinnovati alla scadenza. La rimozione della signora Nderitu è una scelta politica”. Cioè è troppo professionale, non aderisce alla narrazione secondo cui Israele è “genocida”. Quella stessa narrazione che poi ispira l’azione delle corti internazionali.