Esteri

Per Israele un “errore” necessario: i rischi dell’accordo sugli ostaggi

Hamas prova a far leva sull’umanità del nemico. La “pausa” sfruttata non solo per riorganizzarsi, ma anche per aumentare la pressione su Israele perché si fermi

ostaggi israeliani Hamas

Diciamolo subito, a scanso di equivoci. Se nelle prossime ore, forse venerdì, 50 ostaggi israeliani – donne e bambini – torneranno a casa, ci auguriamo senza ulteriori intoppi, è perché Israele ha resistito alle pressioni di chi voleva dissuaderlo dall’entrare a Gaza, ha resistito alle sirene di chi dal primo giorno di bombardamenti chiedeva “pause umanitarie” e argomentava che la reazione “sproporzionata” avrebbe fatto evaporare la solidarietà internazionale (ma quale?) per la mattanza del 7 ottobre. E ha invece esercitato la massima pressione su Hamas, mostrando tutta la sua forza e determinazione.

Accordo doloroso

Un accordo “doloroso e difficile” l’ha definito il presidente israeliano Isaac Herzog. Indubbiamente, perché il governo israeliano non ha ottenuto il rilascio senza condizioni di tutti i 240 ostaggi ancora nelle mani di Hamas come chiedeva. Questa sarebbe dovuta essere dall’inizio la richiesta inflessibile anche degli Stati Uniti e della comunità internazionale, accompagnata da forme di pressione nei confronti del Qatar, il mediatore non disinteressato che in realtà ha negoziato un accordo per aiutare Hamas a sopravvivere. Il rilascio a piccoli gruppi infatti consente ad Hamas di usare gli ostaggi, di far leva sull’umanità del suo nemico, per ottenere vantaggi militari.

Ma con questa decisione, sebbene dolorosa, Israele ricorda ancora una volta, con buona pace dei suoi critici, di tenere alla vita dei civili più che alla morte dei suoi nemici. Subordina i risultati militari della sua operazione a Gaza alla possibilità di salvare la vita degli ostaggi, nonostante sia consapevole di subire un ricatto che incoraggerà altri sequestri in futuro.

Il gioco di Hamas

Qualcuno l’ha chiamata “tregua”, l’amministrazione Usa parla di “pausa prolungata”, forse già sottintendendo la ripresa dell’operazione da parte di Israele. Qualsiasi termine venga usato, il problema del cessate-il-fuoco di quattro giorni (minimo, perché Hamas potrebbe guadagnare un giorno in più ogni 10 ostaggi rilasciati) non sta soltanto nel permettere ad Hamas di rifiatare, riorganizzarsi e migliorare le sue capacità di difesa (o fuga) dall’offensiva israeliana.

Finché il cessate-il-fuoco sarà in vigore, e come detto Hamas potrà prolungarlo centellinando i rilasci, la capacità di Israele di eliminare l’organizzazione dalla Striscia sarà messa in pausa.

Ma non è una questione solo militare, è anche politica. Il problema – ed è ciò su cui puntano Hamas e i suoi sponsor a Doha e Teheran – è che durante questi quattro giorni si apre una finestra di opportunità per gli sforzi – da ogni parte, anche occidentale – finalizzati a ritardare ulteriormente la ripresa dell’operazione israeliana, o addirittura rendere permanente questa pausa – come chiede tra l’altro mezzo Partito Democratico negli Usa. Il che significherebbe non completare il lavoro, salvare Hamas.

La visita di Blinken

Come riportato da Axios, il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha già in programma una visita in Israele “all’inizio della prossima settimana per colloqui con funzionari israeliani e palestinesi sulla guerra a Gaza”. Cioè proprio durante i giorni di cessate-il-fuoco. La domanda è: Blinken farà pressioni per prolungare la “pausa” o renderla permanente, nel tentativo di riavviare il dialogo tra Israele e l’Autorità Palestinese – ma, così facendo, salvando ciò che resta di Hamas?

Mentre ciò che emerge dal sottosuolo all’interno del polo ospedaliero di al-Shifa è un sistema di tunnel e bunker sempre più complesso, con diverse camere da letto, uffici e altre grandi strutture sotterranee, è importante che Israele non defletta dall’obiettivo di distruggere Hamas e sradicarlo completamente dalla Striscia di Gaza.

L’omertà della WHO

Nel frattempo, durante una conferenza stampa è stato chiesto ad un funzionario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) se avessero prove che l’ospedale Shifa fosse utilizzato da Hamas come quartier generale militare. Ecco la risposta del funzionario WHO: “La nostra attenzione quando siamo andati allo Shifa era sui pazienti, la nostra attenzione era sui medici, quindi ci siamo concentrati su questo. Abbiamo visto solo civili. E questo è tutto ciò su cui ci siamo concentrati. Questo era il nostro obiettivo, questo è tutto ciò che abbiamo visto”. Per la serie: non c’ero e se c’ero, dormivo.