Per non rischiare un’escalation, Biden la sta già subendo

Migliore ricetta per un’altra guerra infinita. Altro che fallimento, Teheran sta costringendo Usa e Israele ad accettare un suo attacco diretto come “nuova normalità”

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Non si è scritto abbastanza del disastro dell’amministrazione Biden in Medio Oriente. Ad attenuarne la percezione è il bias nonostante tutto ancora favorevole dei media mainstream, ma è stato raggiunto davvero un livello di guardia, oltre il quale il rischio è la ridefinizione degli equilibri di deterrenza e quindi di potere nella regione, a danno in primis di Israele ma anche degli interessi occidentali.

L’attacco iraniano

A distanza di una settimana, sappiamo ormai che l’attacco senza precedenti iraniano contro Israele è stato tutt’altro che dimostrativo, come era sembrato nelle prime ore. Insieme ai droni e ai missili da crociera, sono stati lanciati verso lo Stato ebraico almeno cento missili balistici. L’intenzione iraniana era di saturare i sistemi di difesa aerea israeliani e colpire duramente, far male.

Vero, il 99 per cento di essi è stato intercettato e l’attacco è stato sventato con successo, sebbene con l’aiuto probabilmente decisivo di aerei da combattimento statunitensi, britannici e giordani. A Teheran è comunque servito come test delle difese israeliane e dei suoi alleati, ma soprattutto, solo averlo concepito e messo in atto rappresenta un’affermazione di status e una sfida aperta agli equilibri regionali.

La nuova normalità

Tutt’altro che un fallimento dunque: Teheran sta costringendo gli Stati Uniti e Israele ad accettare come nuova normalità non solo il quotidiano lancio di razzi da parte di Hezbollah, dei ribelli Houthi nel Mar Rosso e delle altre sigle dell’Asse della Resistenza in Siria e Iraq, ma persino un attacco diretto iraniano. Il che, oltre che inaccettabile, è pericolosissimo.

Che lo scudo difensivo abbia retto (per il momento) non vuol dire sicurezza. Limitarsi a intercettare e abbattere i missili che ti lanciano contro, senza dissuadere chi li ha lanciati colpendo i suoi asset strategici, non è deterrenza. Anzi, è la migliore ricetta per un’altra guerra infinita.

A maggior ragione, quindi, l’attacco iraniano di sabato scorso non può restare senza risposta. E invece, l’amministrazione Biden persevera con il leit motiv dall’inizio della crisi, dal 7 ottobre scorso: pressioni su Israele per dissuaderlo dal rispondere in misura adeguata ai suoi nemici. La paura dell’escalation è più forte della volontà di ristabilire la deterrenza, ma l’effetto non intenzionale è proprio quello di incoraggiare i nemici, di rincorrere l’escalation.

La pressante richiesta di cessate-il-fuoco, l’aperta opposizione all’operazione a Rafah, hanno indebolito la posizione di Israele e portato ad un binario morto i negoziati sugli ostaggi.

A tal punto è erosa la deterrenza Usa, che il regime iraniano, subito dopo aver ignorato il patetico “don’t” di Biden, ha prontamente tracciato la sua linea rossa, avvertendo Israele di non rispondere.

Il messaggio al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che gli Stati Uniti non avrebbero partecipato ad alcuna ritorsione contro l’Iran è stato devastante. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha potuto sostenere che “l’opzione militare” contro la Repubblica Islamica non è più sul tavolo, contrariamente a quanto affermato da tutti i presidenti degli Stati Uniti dal 1979. E se a Teheran semplicemente non credono che gli Stati Uniti intraprenderanno alcuna ritorsione, questo li renderà più o meno aggressivi? Avvicina o allontana la paventata escalation?

Escalation in corso dal 7 ottobre

La realtà è che l’escalation da parte di Teheran è in corso dal 7 ottobre ma l’amministrazione Biden ha temerariamente scelto di ignorarla. Noto il sostegno iraniano ad Hamas, non è più in dubbio nemmeno la regia di Teheran nella pianificazione dell’attacco del 7 ottobre. Così come il supporto dell’intelligence iraniana agli Houthi per localizzare e colpire le navi di passaggio nel Mar Rosso. Oltre 170 attacchi dei proxy iraniani contro basi statunitensi in tutto il Medio Oriente, fino all’attacco alla Torre 22 in Giordania, che ha provocato la morte di tre militari americani. E sabato scorso l’attacco diretto a Israele. Non è ancora abbastanza per parlare di escalation?

Per non rischiare un’escalation, Washington di fatto la sta subendo. E il rischio, come abbiamo più volte segnalato, è che prima o poi dovrà rispondere. Ma più aspetta, più permette che Teheran alzi l’asticella, più la risposta dovrà essere dura e allora sì pericolosa.

La risposta di Israele

Israele probabilmente risponderà all’Iran, ma già il fatto che non abbia potuto farlo subito, che debba negoziare modalità e tempi della risposta con Washington, ne intacca la deterrenza e lo status di potenza nella regione.

Per essere efficace, la risposta israeliana dovrà colpire gli interessi strategici del regime: il programma nucleare, la leadership delle Guardie della Rivoluzione e del regime stesso, le basi militari, gli impianti di produzione e i siti di lancio di missili e droni, le piattaforme petrolifere e le raffinerie.

Vedremo. Intanto, Iran, Russia e altri rivali stanno imparando dalla debolezza Usa. Il paradosso è che quando Biden dice “don’t”, non fatelo, è proprio il momento in cui decidono di farlo, ha osservato Gerard Baker sul Wall Street Journal: “If we continue to defer to rather than deter our adversaries, Beijing will surely respond like Iran, Russia and terrorists worldwide when this president says Don’t”.

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