Un Vladimir Putin sempre più paranoico e isolato che prende la decisione di invadere l’Ucraina praticamente da solo, circondato da yes-men che non osano contraddirlo e gli raccontano tutto quel che vuol sentire.
Questo, per farla breve, è il ritratto del dittatore nel suo labirinto che emerge dal reportage di Seddon, Miller e Schwartz sul Financial Times, a un anno dall’inizio della guerra. Una narrazione a grandi linee verosimile che, però, rischia di sottostimare il contesto politico-istituzionale nel quale l’aggressione all’Ucraina è stata pianificata.
L’apparato
Per quanto il suo potere sia diventato negli anni sempre più accentrato e personalistico, Putin non è una monade e le sue azioni non possono essere ascritte esclusivamente ad ossessioni individuali.
Attorno a lui si muove un articolato apparato di gruppi di pressione (circoli accademici, ideologi nazionalisti, complesso industrial-militare, siloviki, servizi segreti) che partecipa del sistema e contribuisce alla sua sopravvivenza, senza l’appoggio dei quali Putin sarebbe già un ricordo.
È qui che si gioca la partita più importante, quella che condizionerà l’andamento della guerra e gli sviluppi della crisi internazionale in corso: quel che si cuoce a Mosca – attorno o alle spalle di Putin – è in questo momento il fattore decisivo dei futuri equilibri continentali.
Invasione a sorpresa?
La storia comincia con la chiamata di Putin a Lavrov all’una del mattino del 24 febbraio 2022, in cui il presidente comunica al suo ministro degli esteri di aver ordinato l’inizio dell’invasione. E qui ci troviamo davanti a un primo problema, la presunta sorpresa di Lavrov e – a seguire, nel corso della giornata – della nomenklatura di regime.
Se è vero che la tragicomica sessione del Consiglio di Sicurezza di due giorni prima, con tanto di umiliazione pubblica dei suoi sottoposti, aveva lasciato intendere che la collegialità non era esattamente la norma al vertice dello Stato russo, è altresì improbabile che l’accumulazione di truppe in corso da mesi lungo il confine con l’Ucraina potesse essere stata decisa al margine dell’intera struttura politico-istituzionale.
Può darsi che Patrushev (Consiglio di Sicurezza), Naryshkin (Servizio di Intelligenza Estero) e Bortnikov (FSB) non abbiano preso parte ad ogni riunione di preparazione alla guerra e non siano stati informati in anticipo sul giorno e l’ora dell’attacco, ma è difficile pensare che quella mattina fossero all’oscuro delle intenzioni di Putin.
Il Financial Times cita, come fonti principali dell’articolo, “sei persone di fiducia di Putin e altri funzionari coinvolti nello sforzo bellico della Russia”: non è improbabile che questi insiders – viste le difficoltà sul campo – cerchino oggi di prendere le distanze dal vertice e di relativizzare il loro ruolo nel processo decisionale che ha portato all’invasione.
Nel bunker putiniano
Uno degli aspetti più significativi è la sensazione di superficialità e improvvisazione che ha caratterizzato l’intero approccio alla guerra. Putin avrebbe fatto affidamento su personaggi la cui credibilità era a dir poco discutibile, primo fra tutti l’oligarca e politico filo-russo Viktor Medvedchuk. A lui e alla sua cerchia di fedelissimi sarebbe stato affidato il lavoro di preparazione sul campo, con l’indicazione degli obiettivi da raggiungere nelle fasi iniziali e delle vie di comunicazione da controllare.
Non solo. Sarebbe stato proprio Medvedchuk, con la benedizione dell’ex presidente Yanukovich, l’uomo destinato a sostituire Zelensky una volta deposto. Il tutto basato sull’erronea convinzione che le truppe russe avrebbero ricevuto un’accoglienza entusiasta da parte della popolazione ucraina, una percezione che chiunque dall’esterno avrebbe potuto facilmente smentire.
Ma dentro il bunker putiniano la realtà veniva stravolta dall’isolamento del leader e dal silenzio omertoso dei consiglieri, che preferivano tacere le loro perplessità sulle rassicurazioni provenienti dalle quinte colonne in territorio ucraino.
Come noto, Medvedchuk è stato poi arrestato dai servizi segreti ucraini un mese e mezzo dopo l’inizio della guerra e consegnato alla Russia in uno scambio di prigionieri. I suoi uomini sono scappati con i soldi che Mosca aveva consegnato loro a cambio di informazioni. Un vero capolavoro tattico.
Il controllo dei cieli
Dal punto di vista strettamente militare, l’articolo aiuta a chiarire uno dei grandi dubbi di questo conflitto, riguardante l’incapacità russa di assumere il controllo dei cieli ucraini. Molti aerei da combattimento degli attaccanti sarebbero stati abbattuti dal fuoco amico nei primi giorni di operazioni.
A partire da quel momento diversi piloti si sarebbero rifiutati di combattere in condizioni di scarsa sicurezza, per cui Mosca si sarebbe trovata nell’impossibilità di continuare la campagna aerea. Se confermato, si tratterebbe di un dato clamoroso, a conferma dell’impreparazione delle truppe di terra, mandate allo sbaraglio senza indicazioni precise.
Putin raddoppia
Secondo le fonti consultate, Putin avrebbe compreso fin dall’inizio che la sbandierata “operazione speciale” si stava rivelando un fallimento, confessandolo a più riprese al suo entourage. Ma, invece di prendere atto della realtà e ripiegare, ciò lo ha indotto a raddoppiare la retorica e lo sforzo bellico (mobilitazione e aumento della produzione militare).
Nelle ultime settimane è tornato spesso nei suoi discorsi sul tema della “minaccia esistenziale” che il conflitto rappresenterebbe per la Russia. Questo continuo richiamo alla sopravvivenza e ad un “Occidente che vuole distruggerci” (Putin non si riferisce più all’Ucraina, ma quasi sempre agli Stati Uniti e all’Occidente “collettivo”) è il sintomo di una deriva paranoica già evidente nei pronunciamenti degli ultimi anni, acuita oggi dallo stallo sul campo di battaglia.
Perse le speranze in una vittoria rapida e nell’inazione dell’Occidente (già sperimentata in Crimea nel 2014), Putin ha affidato la sopravvivenza del suo regime a un conflitto protratto nel tempo, che fiacchi non solo la resistenza ucraina ma soprattutto la determinazione delle democrazie a sostegno.
Paura di vincere
Un recente intervento dello scrittore franco-americano Jonathan Littell avverte del rischio di un Occidente che ha paura di vincere e combatte “con una mano dietro la schiena”, facendo credere implicitamente a Putin che – nonostante tutto – può ancora avere la meglio.
Come le dichiarazioni pre-invasione di Biden, secondo cui la Nato non sarebbe intervenuta direttamente in un eventuale conflitto, furono probabilmente un fattore decisivo nel convincere il dittatore ad attaccare, anche oggi i continui tentennamenti di molti leader europei alimentano le speranze russe di poter uscire dalla guerra con qualche risultato positivo. Il che inevitabilmente ne prolunga la durata e ne aggrava le conseguenze.