Esteri

Perché non può esserci spazio per un “razzismo compensativo”

Nel diritto Usa primato dell’individuo sullo Stato e su tutte le strutture collettive. Le buone intenzioni della politica non giustificano la violazione dei diritti individuali

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La recente sentenza con cui la Corte Suprema Usa, a maggioranza di sei giudici contro tre, ha risolto due cause riunite che contrapponevano un’associazione fondata a tutela della corretta ammissione degli studenti ai corsi universitari (Students for Fairy Admissions) all’Università Harvard e all’Università del Nord Carolina, dichiarando illegittimi i criteri di ammissione delle due università, in quanto basati su un eccessivo peso dato alla razza dei richiedenti, elevata spesso a criterio decisivo, ovviamente ha suscitato forti polemiche.

I contrari alla decisione hanno usato sui mass media (anche italiani) toni spesso drammatici ed hanno visto in questa pronuncia la distruzione dei diritti negli Stati Uniti, il ritorno del razzismo, il rovesciamento della evoluzione moderna delle pronunce della Corte; qualcuno ha persino tirato in ballo il “sogno” sull’eguaglianza razziale di Martin Luther King jr. (che però molto probabilmente avrebbe anch’egli condannato il sistema adottato dalle università).

Si tratta invece, a giudizio di chi scrive, di una sentenza equilibrata, in linea con la tradizione americana (e prima ancora anglosassone) di tutela dei diritti individuali e in linea con l’evoluzione, che a partire dalla entrata in vigore del XIV Emendamento alla Costituzione nel 1868 in avanti ha gradualmente eliminato gli elementi di discriminazione razziale presenti nella legislazione americana.

Nel caso in esame in particolare la sentenza ha impedito che dietro le proclamate buone intenzioni il sistema di ammissione ai corsi universitari a numero chiuso, privilegiando una razza piuttosto che un’altra portasse avanti una forma di segregazione non dissimile da quelle del secolo precedente, cambiando solo le razze favorite, e ponendo in essere una sorta di “razzismo compensativo” dei torti passati.

Assimilazione tra diritto e politica

L’affermazione forse più fuorviante (anche se una delle più ripetute nei media) è che si è trattato di una sentenza politica: si è invece trattato di una sentenza tipicamente giuridica ed il fatto che ci sia stata una divisione tra giudici conservatori e progressisti non rende politica la sentenza, ma ci fa capire che il concetto di diritto esistente negli Stati Uniti (ma il discorso vale per tutti i Paesi di cultura anglosassone) è molto diverso da quello degli Stati europeo-continentali, un tema sul quale vale la pena di spendere qualche parola.

Che in linea di principio il diritto sia una cosa opinabile, anche se non ovviamente arbitraria, e che una decisione giudiziaria possa e addirittura debba essere il frutto del confronto tra diverse opinioni, sono cose accettate da tutti sin dai tempi del diritto romano antico. In pratica però nella cultura europeo-continentale (francese, tedesca, italiana ecc.) in epoca moderna ha preso il sopravvento la tesi che in un caso concreto la decisione giudiziaria deve limitarsi ad “applicare la legge”, per cui non deve esserci alcuno spazio per opinioni diverse da quella “giusta”.

E a questo proposito si interpreta la definizione che risale a Montesquieu del potere giudiziario come “potere neutro”, nel senso che l’attività giudiziaria è vincolata ad applicare solo quanto previsto dalla legge. Significativamente le Corti europee continentali non prevedono la redazione (fondamentale invece in quelle americane) delle opinioni dissenzienti rispetto alla decisione di maggioranza.

Questo rapporto tra il mondo della politica e quello del diritto viene in genere spiegato con l’evoluzione storica delle istituzioni occidentali, in particolare di quelle europee-continentali. Il sovrano medievale disponeva di due tipi di potere che condivideva in parte con i suoi vassalli, con gli ecclesiastici e con i rappresentanti delle corporazioni cittadine. Accanto al potere politico (imperium) che riguardava tutte le questioni di interesse collettivo, si poneva sullo stesso piano, ma in opposizione ad esso quello giuridico (iurisdictio) che era diretto a tutelare i diritti individuali.

Quest’ultimo potere rappresentava in un certo senso il limite del primo: ogni decisione politica, compresa l’emanazione delle leggi, doveva rispettare (salvo le eccezioni previste) i diritti dei singoli. Con la monarchia assoluta continentale i due poteri si concentrarono nel sovrano e in sostanza il potere giuridico divenne solo una fase, quella applicativa, del potere politico: i diritti dei singoli vennero a dipendere dalle scelte del “legislatore”.

La democratizzazione e la razionalizzazione dello Stato ispirata alle idee illuministe fecero in modo di eliminare l’arbitrarietà di cui godeva il sovrano assoluto: lo Stato democratico europeo continentale emana le leggi, ma poi è tenuto a rispettarle in quanto le stesse si applicano anche ai poteri pubblici (in particolare ciò vale per le norme di livello superiore, quelle costituzionali).

In tal modo al di qua della Manica si affermò lo “stato di diritto”, frutto della mentalità liberale moderna, ma non venne meno una eredità dello Stato assoluto, l’assimilazione tra diritto e politica. In tal modo, perduta la loro netta separazione medievale, politica e diritto in questa forma di Stato moderno sono entrambi rivolti alla realizzazione dell’interesse pubblico, mentre la tutela dei diritti dei singoli viene in essere solo in quanto prevista dalla legge che di tale interesse è interprete.

Gli immancabili conflitti (di fatto anche la semplice applicazione del diritto è spesso opinabile) tra potere politico e giudiziario si manifestano come conflitti di competenza tra due strutture dello Stato che svolgono funzioni collegate tra loro. L’attività giudiziaria infatti non si contrappone alla politica, ma piuttosto assume una funzione di controllo, ad esempio con riferimento alle norme costituzionali, sulle decisioni della stessa, compresa l’emanazione delle leggi.

Politica e diritto separati

Un’evoluzione e un esito completamente diversi si sono avuti invece nei Paesi anglosassoni, dove non vi è mai stata una monarchia assoluta, ma una monarchia a potere limitato. In quei sistemi diritto e politica hanno continuato ad essere separati e il primo ha continuato a rappresentare, secondo i principi del “governo del diritto” (rule of law), il limite insuperabile della seconda.

E tutto questo non è venuto meno, ma è stato addirittura rafforzato con la democratizzazione, che ha creato collegamenti tra organi politici e giudiziari (ad esempio a livello di nomine e di responsabilità dei giudici), ma ha rispettato la separazione tra le due attività pubbliche. In quei sistemi (in particolare negli Stati Uniti) politica e diritto sono separati in quanto svolgono funzioni diverse, e lo fanno poiché si pongono da punti di vista diversi: come da tradizione la politica mira a realizzare gli interessi pubblici o almeno collettivi, mentre il diritto punta a tutelare quelli individuali.

Se posso aggiungere una considerazione, personalmente ritengo che la piena separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu si ha solo nei sistemi anglosassoni, così come solo in quei sistemi il potere giudiziario è veramente “neutro”, privo di una volontà propria in quanto il suo compito non consiste tanto nell’applicare una legge (come nei sistemi continentali) quanto nell’aderire (ovviamente sulla base dei diritti riconosciuti) alla tesi di una o dell’altra delle parti in causa.

Il diritto anglosassone può quindi permettersi di essere pienamente opinabile ed i giudici possono, tramite le opinioni concorrenti o dissenzienti rispetto alla maggioranza, apertamente dividersi in conservatori e progressisti senza per questo poter essere accusati di svolgere attività politica, proprio perché l’attività giudiziaria è al di fuori, strutturalmente, da quella politica anche se ne condiziona spesso gli esiti.

E i diritti individuali non derivano dalla legge, ma dall’esperienza giudiziaria spesso secolare, in base alla regola seguita dai giudici anglosassoni di “guardare alle decisioni precedenti” (stare decisis), e la stessa Costituzione è considerata soprattutto come una messa per iscritto dei diritti tradizionali.

Le buone intenzioni non contano

Questa contrapposizione tra diritto e politica si è vista in maniera chiara anche nella sentenza sulle ammissioni basate sulla razza nelle università, con la quale peraltro la Corte non ha ribaltato il proprio orientamento precedente in materia, ma ha solo ristretto i criteri di giudizio sull’utilizzabilità delle caratteristiche razziali nell’ammissione degli studenti alle università, di fatto ponendo fine ad un criterio di scelta già criticato in passato e ammesso solo come soluzione provvisoria e da utilizzare con cautela.

Uno dei momenti di più forte continuità nell’orientamento della Corte con le sue decisioni precedenti, è consistito nell’affermazione (ineccepibile a parere di chi scrive) che, anche se è comprensibile e rispettabile nelle sue intenzioni un provvedimento che miri a riparare i torti subiti in passato dagli appartenenti ad una certa razza, quali gli afroamericani, gli ispanici ecc. (punto di vista politico riferito, a torto o a ragione, agli interessi collettivi), ciò non giustificherà mai l’esclusione dall’ammissione ai corsi universitari di un singolo studente bianco o asiatico che di quei torti non è personalmente colpevole (punto di vista giuridico, riferito ai diritti individuali). In tal modo il diritto ancora una volta ha svolto il ruolo di limite delle scelte politiche.

Paradossi americani

La società americana così apparentemente familiare (i divi del cinema, i personaggi pubblici, le stesse questioni sociali e politiche) ma così poco conosciuta nelle sue caratteristiche profonde e spesso così poco apprezzata da noi, è piena di paradossi, quali il fatto che un Paese in parte (ma solo in parte: la maggioranza dei bianchi ha sempre combattuto il razzismo legalizzato) segnato dalla segregazione razziale ha finito per creare l’unica vera società multietnica, dove uomini e donne di tutte le razze convivono, pur con molti lati oscuri (ma il mondo perfetto non esiste) su un piano di tendenziale parità, e dove l’immigrazione porta con sé le migliori menti del pianeta, e il ringiovanimento dell’età media della popolazione.

Primato dell’individuo sullo Stato

Ma al di sotto di tali apparenti paradossi, derivanti forse dal fatto che il culto americano della libertà personale permette talora di esprimersi e di attecchire anche ad idee e ad organizzazioni assurde e condannabili (cosa che fa storcere il naso a molti europei, troppo fieri dei loro principi collettivistici, che forse hanno recato più danni alle concrete possibilità di vita dei singoli delle segregazioni razziali americane), rimangono fermi i principi tradizionali, ereditati dalla cultura medievale e moderna britannica, su tutti quelli del primato del singolo sullo Stato e su tutte le strutture collettive, comprese le élites culturali e mediatiche, e quello dell’eguaglianza di fronte alla legge tra i diversi individui.

Anche per questo si può ben sperare in un altro paradosso, cioè sul fatto che proprio gli Stati Uniti, che sono stati il luogo di origine e sono tuttora la cassa di risonanza mondiale (si pensi al settore del cinema, a quello sportivo, a quello culturale “divulgativo”) della cultura woke, siano i primi, smascherandone l’ideologia violenta e repressiva nascosta sotto le aspirazioni a realizzare il mondo perfetto, a ripudiarla e a procedere verso altri valori.

Magari rielaborando ancora una volta quelli tradizionali, compresi quelli che dopo la Guerra Civile portarono alla redazione del XIV Emendamento, che nel caso della causa in esame ha imposto di porre fine ad una nuova forma di segregazione nelle università (che ha portato a dormitori, lezioni e programmi, persino esami di laurea separati per razza) non meno odiosa di quella subita in passato dalle persone di colore.