Il lettore mi permetterà di iniziare il mio discorso tornando un attimo sui fatti avvenuti negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021, cioè sul famoso “assalto al Congresso” da parte di un gruppo di sostenitori dell’allora sconfitto Donald Trump, un atto più sconsiderato e stupidamente violento che non autenticamente sovversivo. In quell’occasione, pur riconoscendo i suoi meriti come presidente e pur considerando assurde le accuse di tentato colpo di stato, scrissi su Atlantico Quotidiano che il comportamento di Trump era da paragonare ad un vero e proprio suicidio politico e che la sua uscita di scena sarebbe stata definitiva: insomma lo avevo già consegnato ai libri di storia, magari con la speranza che gli stessi avrebbero reso giustizia alla sua figura.
Ovviamente, avevo sbagliato di grosso, e se mi chiedo perché allora ero certo che Trump non avrebbe mai più avuto un ruolo nella politica americana, la risposta mi è chiara: avevo sbagliato a giudicare il futuro politico di Trump perché (cosa forse inevitabile) avevo ragionato come un europeo e non come un americano, non avevo cioè tenuto conto di quello che è un pilastro nella morale sociale, e a monte del modo di prendere la vita, d’oltreoceano, la cultura della sconfitta.
La cultura della sconfitta
Contrariamente infatti a quanto avviene nelle società europee, dove la sconfitta, il fallimento dei propri piani (nel lavoro, in politica, persino nei rapporti personali) rappresentano quasi sempre una sorta di “macchia” sul prestigio delle persone, che in genere devono affidarsi alla benevolenza dei vincitori per essere riammessi nelle piccole o grandi élites di cui facevano parte (il che vale tanto per la star televisiva quanto per il funzionario amministrativo), per la mentalità americana il fallimento è sempre considerato come una tappa utile, e a volte necessaria, per raggiungere il successo.
Un successo che, anche qui contrariamento a quanto avviene da noi, non è necessariamente identificato con il benessere materiale o con l’applauso del pubblico, ma consiste essenzialmente nella realizzazione dei propri valori e ideali di vita, realizzazione che in sostanza coincide con la “felicità” di cui parla la Dichiarazione di indipendenza del 1776, redatta da Thomas Jefferson (1743 – 1826). La vicenda politica di Donald Trump ha incarnato alla perfezione questa visione delle cose.
Forse sorprenderà sapere (tanto radicata è l’immagine, derivata dei peggiori prodotti hollywoodiani e fatta propria in modo rozzo da molti europei, degli americani come di un popolo di “pescecani” disposti a tutto pur di sconfiggere i rivali) che negli Stati Uniti si svolgono abitualmente convegni e seminari di studio sul valore del fallimento e della sconfitta come mezzi per realizzare sé stessi.
Convegni e seminari ai quali, di fronte ad un pubblico fatto di persone che si trovano nelle più varie condizioni sociali, intervengono alcuni dei personaggi più famosi del mondo della politica, dell’imprenditoria, del giornalismo ecc., che raccontano senza vergognarsi dei loro fallimenti, delle loro sconfitte e di come queste esperienze negative, spesso umilianti abbiano rappresentato per loro la via verso il successo, cioè verso la realizzazione dei propri ideali di vita.
La lezione dei fatti
Naturalmente la società americana non è perfetta: interessi e obiettivi molto materiali dominano la vita di tutti i giorni, anche quella delle persone migliori, fatto sta però che alcuni valori culturali di fondo regolano e in sostanza guidano, spesso in maniera inespressa, l’agire dei singoli e danno forma alla società e al modo di pensare d’oltreoceano. In questo senso la cultura della sconfitta come via per il successo, come via per la ricerca della felicità si basa su due principi: l’empirismo sui fatti e la trascendenza dei valori.
Grazie al primo gli americani sanno imparare dai fatti (e quindi sia dai successi che dalle sconfitte) a correggere i propri errori, ma non sono schiavi dei fatti e dei risultati materiali a tutti i costi e sanno distinguere quando il fallimento deriva da colpe personali e quando invece è opera del caso o della scorrettezza altrui, e questo lo sanno fare grazie al secondo principio, quello della trascendenza dei valori.
Quest’ultimo deriva dalla tradizione religiosa comune a tutte le chiese cristiane, declinata secondo i principi del protestantesimo riformato (o calvinista), come il grande sociologo tedesco Max Weber (1864 – 1920), uno dei pensatori europei che ha meglio capito la cultura americana, ha spiegato nel suo libro “Etica protestante e spirito del capitalismo”.
Grazie al fatto di avere dei valori trascendenti di origine religiosa, valori che non contrastano peraltro con un ateismo critico e rispettoso della tradizione, ma che fanno a pugni con il materialismo legato ai risultati (spesso spacciati come opere di bene) tanto diffuso in Europa, gli americani sanno in genere affrontare in maniera più serena di noi sconfitte e successi e in fondo il vecchio apologo del lustrascarpe divenuto capitano d’industria, tornato lustrascarpe e quindi divenuto uno stimato professionista illustra alla perfezione la mentalità americana, e calza a pennello se riferito ad un personaggio come Trump, un outsider, un “parvenu” della politica, divenuto a sorpresa presidente degli Stati Uniti, tornato ad essere un reietto del mondo politico e quasi criminalizzato, e quindi divenuto nuovamente e con grande successo, presidente.
L’individualismo
Come si può comprendere, si tratta di una morale decisamente individualista, ma qui occorre intendersi sui termini: come ha illustrato chiaramente il filosofo austriaco-britannico Karl Popper (1902 – 1994) nel suo libro “La società aperta e i suoi nemici”, l’individualismo è da intendersi come una cosa diversa dall’egoismo. L’egoismo (selfishness) riguarda i fini dell’agire umano, che sono diretti alla pura soddisfazione personale, l’individualismo (selfreliance) riguarda invece i modi di tale agire rispetto ai quali l’individualista rivendica la libertà di scelta e si assume la responsabilità della stessa.
Così l’individualismo si può unire sia all’egoismo sia all’altruismo, e se ciò dipende a livello personale dalle scelte morali individuali, la cultura politica e civile di un Paese diventa decisiva a livello sociale affinché in tale Paese prevalga un’etica pubblica al tempo stesso individualista ed altruista (aperta ai valori comunitari) oppure un’etica individualista ma egoista.
Un altro grande pensatore europeo capace di capire appieno la mentalità americana è stato com’è noto il filosofo e politico francese Alexis de Tocqueville (1805 – 1859), il quale ha affermato che il fattore decisivo per indirizzare l’individualismo di una società verso l’altruismo e quindi verso il rispetto dei valori civili e politici sta nella libertà dei singoli.
E già nella prima metà dell’ottocento, nel suo capolavoro “La democrazia in America”, sosteneva che mentre in Europa si ha la tendenza ad affidarsi ad una sorta di dispotismo benevolo, che affermando di essere capace di gestire i problemi dei singoli finisce per indurli a chiudersi nel loro egoismo personale, negli Stati Uniti la libertà individuale, derivata dalla tradizione britannica e fatta propria (nonostante i difetti e le cadute che la storia ha messo in evidenza) da tutti gli americani di tutte le origini, razze e culture, unita alla responsabilità per le proprie scelte, induce a prendersi cura, in un modo o nell’altro anche delle questioni sociali e politiche, anche solo (aggiungo io) attraverso la scelta responsabile e non ideologizzata dei candidati, una scelta nella quale consiste, non lo si deve dimenticare mai, la vera essenza della democrazia.
Quanto grande sia anche oggi la distanza tra questa visione americana e quella di un’Europa continentale sempre più dominata da funzionari (amministrativi e giudiziari) non eletti, e legittimati a governare e a decidere su questioni anche molto importanti in nome della loro “infallibilità” tecnocratica lo lascio giudicare al lettore.
Il rigetto della cultura woke
Resta il fatto che la vittoria di Trump, ma più in generale, come tra poco cercherò di chiarire, la stessa campagna elettorale svoltasi a monte delle elezioni, rappresentano a mio avviso il risultato di un rifiuto sempre più netto da parte degli americani della ideologia woke e di tutti i suoi eccessi, che hanno portato a trasformare delle esigenze legittime e in parte meritevoli di accoglimento (l’ambientalismo, l’inclusione, la tutela delle minoranze ecc.) in strumenti di indottrinamento e di oppressione delle persone.
Già qualche anno addietro, nei momenti di maggior fioritura di questa ideologia (per gli Stati Uniti mi riferisco soprattutto agli anni della seconda presidenza di Barack Obama), alcune voci dissenzienti profetizzavano che nonostante tutto i valori liberali americani tradizionali, basati sui principi di cui abbiamo parlato, alla lunga avrebbero finito per prevalere. Oggi, anche se il futuro non può essere mai previsto con esattezza, essendo sempre il frutto delle scelte umane, possiamo azzardarci a dire che molto probabilmente costoro avevano ragione.
Le elezioni del 5 novembre infatti non hanno rappresentato solo il (meritato) successo, cioè la realizzazione dei valori di Trump e dei suoi sostenitori, ma sono state in gran parte anche la conferma dei principi tradizionali su cui si fonda il sistema politico e sociale degli Stati Uniti, un sistema che nonostante i suoi difetti riesce a unire tra loro in modo migliore di quanto accade negli altri Paesi, la libertà individuale e la partecipazione democratica.
Valori comuni
Tutto questo si basa su un presupposto che il citato Tocqueville già ai suoi tempi notava, un presupposto costituito dal fatto che la società americana è fondata su alcuni valori comuni condivisi da tutti, cosa che il pensatore francese trovava affascinante, poiché questi valori comuni erano condivisi dagli esponenti delle più diverse chiese cristiane che in Europa viceversa si guardavano in cagnesco o addirittura si combattevano.
La condivisione pressoché generale di questi valori fondamentali, cioè in sostanza dei valori propri dell’individualismo altruistico, o “comunitario” (per usare il termine che dà il titolo ad un recente libro di Dino Cofrancesco), rimane ancora oggi il fondamento della società americana, e in questo senso la riaffermazione degli stessi rappresenta un netto rigetto della cultura woke che da sempre ha mirato a distruggerli, cercando di creare “due Americhe”, quella dei buoni ed illuminati e quella dei rozzi e cattivi.
I meriti di Kamala
Infine, dato che in questo scritto ho tentato di illustrare la cultura della sconfitta, è giusto concludere con il riconoscimento dei meriti della candidata perdente, Kamala Harris. Quali che siano state le ragioni della sua sostituzione “in corsa” al presidente in carica Joe Biden, resta il fatto che la Harris ha adottato in tutta la campagna elettorale (compatibilmente con l’atteggiamento polemico tipico della competizione politica) toni molto più rispettosi e concilianti verso gli avversari politici, ben diversi da quelli divenuti abituali nelle competizioni passate.
Ancora pochi giorni prima del voto, di fronte ad alcune dichiarazioni estreme del presidente Biden che aveva definito “spazzatura” gli elettori di Trump, la Harris ha ribadito che “ciò che unisce gli americani è più forte di ciò che li divide”, una frase che un liberale classico non può che approvare in pieno.
In fondo, se le elezioni del 5 novembre saranno effettivamente state l’inizio della fine del potere della cultura woke in America (in Europa, soprattutto in un’Europa continentale dominata dalle élites politicamente corrette, temo che essa ristagnerà ancora a lungo) dipenderà in parte anche dalla capacità del Partito Democratico di riuscire a proseguire sulla strada tracciata da queste affermazioni della Harris, emarginando le concezioni estreme, e tornando a far proprie le posizioni progressiste tradizionali (quali quelle ancora prevalenti durante le due presidenze di Bill Clinton). Un esito che chi ama la democrazia liberale e i suoi principi non può che augurarsi.