Perché una vittoria di Trump non minerebbe l’alleanza transatlantica

Lo spiega l’ambasciatore Gabriele Checchia: la critica all’interventismo democratico e neocon non equivale a isolazionismo. Usa partner ineludibile anche con Trump

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A ridosso dalla sfida elettorale delle presidenziali statunitensi, la società americana appare divisa, frantumata e magmatica. Dalle contaminazioni e fluidità dei gruppi etnico-sociali rispetto ai due candidati fino al peso dei rapporti con Pechino. Una magmaticità che rende il suo esito tanto cruciale quanto incerto. Affidando il destino della più grande democrazia occidentale a pochi voti, a pochi stati.

Cosa cambierà con Trump e cosa con Harris? Per meglio comprendere queste dinamiche abbiamo intervistato l’ambasciatore Gabriele Checchia, presidente del comitato strategico del Comitato Atlantico Italiano, presieduto dal professor Fabrizio Luciolli (che alle sfide transatlantiche ha dedicato numerosi scritti), e direttore per le relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo, e già ambasciatore italiano in Libano, presso la Nato e presso l’Ocse/Esa/Aie a Parigi.

La sfida degli Swing States

FRANCESCO SUBIACO: Ambasciatore Checchia, a pochi mesi dalle elezioni americane come prevede si concluderà il duello elettorale tra Democratici e Repubblicani?

GABRIELE CHECCHIA: La mia sensazione è (come del resto è opinione dei principali commentatori italiani e esteri) che la partita delle presidenziali statunitensi sia ancora aperta e che la sfida tra Trump e Harris non sarà decisa solo da pochi stati, ma anche da pochi voti, soprattutto quelli degli indecisi in alcuni stati chiave.

Tutti concordano, infatti, che la vera sfida si giocherà soprattutto nei cosiddetti Swing States – gli stati in bilico – della “Rust Belt” e della “Sun Belt”. Degli stati in cui non esiste un sostegno storico o granitico ad uno dei due grandi partiti, e dove quindi sarà decisivo capire in che modo si posizioneranno quel circa 3% di indecisi che potrebbero spostare l’ago della bilancia delle elezioni presidenziali. Si tratta, del resto, di una tornata elettorale estremamente complessa e tesa.

Anche perché le differenze tra i principali candidati nei 7 stati chiave (che hanno il 18% della popolazione americana e 93 grandi elettori) sono prossimi ai margini di errore nei sondaggi. In questo caso gli stati più decisivi, tra gli Swing States, saranno quelli del nord, anche perché detengono più grandi elettori: Pennsylvania (con 19 grandi elettori) e Michigan (che ne ha invece 15).

I veri nodi della “Rust Belt”

FS: Come si sta sviluppando il duello tra Harris e Trump in questi due stati del Rust Belt e quali vantaggi e svantaggi presentano per entrambi i candidati?

GC: Anche in questi stati la sfida elettorale è tendenzialmente aperta. In Pennsylvania c’è una linea di frattura tra le zone più ricche e i grandi centri urbani come Pittsburgh e Philadelphia (dove prevale la Harris) e le aree rurali ed i piccoli e medi centri (in cui prevale nettamente Trump). Una bipartizione che però seppur sembra dare un leggero vantaggio alla Harris è molto magmatica, tanto da rendere la partita elettorale ancora indefinita nei suoi esiti.

Ci sono però due principali fattori di incertezza. Il primo è sapere come si posizioneranno in questo stato quegli elettori che alle primarie del Gop hanno votato per Nikki Halley (che ottenne circa 150.000 voti seppur essa si fosse già ritirata). Occorre, quindi, capire se essi confermeranno Trump o indirizzeranno i loro voti verso i Democratici.

Un altro fattore di incertezza è poi dato dalle conseguenze che ci saranno nello scenario elettorale a causa degli effetti della crisi industriale che la Pennsylvania sta vivendo e che potrebbe avere conseguenze sulle scelte dei lavoratori dei blue collars colpiti dalla crisi economica e dalle possibilità di delocalizzazioni. Tanto che mi sembra importante sottolineare il sostegno che sia Trump che Harris hanno dato ai lavoratori di una grande acciaieria di Pittsburgh in sciopero di fronte all’acquisizione della propria compagnia da parte di un gruppo giapponese.

Mi sembra opportuno poi evidenziare che entrambi puntano – seppur in modi diversi – ad accreditarsi come difensori del “lavoro americano”.

In questo scenario è rilevante anche la profonda attenzione che la Harris sta mostrando sulla questione del fracking; passando da una iniziale contrarietà ad una tiepida apertura. Una disponibilità su questa tematica che si pone come un gesto di apertura agli elettori centristi e repubblicani che invece sono molto sensibili sulle tematiche energetiche più di quanto lo siano su quelle ambientali… È interessante notare poi che sia Harris che Trump hanno fatto numerose visite in questo stato oltre che impiegare grandi disponibilità finanziarie nella loro campagna elettorale.

Le insidie islamowokiste del Michigan

FS: Invece il Michigan?

GC: Il Michigan è un altro stato con una importante tradizione industriale e una lunga storia democratica, ridimensionata nell’ultima fase (nel 2016 fu conquistato da Trump, nel 2020 fu vinto per pochi voti da Biden). Un aspetto importante è la presenza di una forte componente arabo-islamica, molto sensibile sulle posizioni che prenderà il futuro presidente nello scontro tra Israele ed Hamas. Un tema in cui i Democratici sembrano essere favoriti.

Anche se è chiaro che questa comunità si aspetta una maggiore equidistanza dalla Harris rispetto al suo predecessore; oltre che una maggiore distanza dal governo di Netanyahu. E questo potrebbe essere un vantaggio, ma allo stesso tempo un problema per i Democratici soprattutto nell’ambito del rapporto con il voto moderato e il voto ebraico. Non a caso in una visita della Harris nel Michigan a Flint, è avvenuto un incontro tra il candidato democratico e i rappresentanti  della comunità arabo-islamica dello stato in una riunione a porte chiuse, dove sicuramente saranno state esposte queste istanze.

Una tematica, quella del conflitto israelo-palestinese, che potrebbe favorire la Harris soprattutto per captare i consensi dei grandi college progressisti che sono presenti nello stato e che vedono tanti giovani studenti filopalestinesi e anche filo-Hamas. Due categorie sociali che potrebbero corroborare una vittoria della Harris anche se non è detto che potrebbero aprirle una vittoria definitiva. Ci attendono dunque giornate decisive. Soprattutto perché le conseguenze del risultato del 5 novembre saranno cruciali nelle evoluzioni dello scenario internazionale.

Rapporti transatlantici, oltre totem e tabù

FS: Come pensa verranno, quindi, ridefiniti i rapporti transatlantici in caso di una vittoria dell’uno o dell’altro candidato? E che conseguenze ci saranno per gli Usa nel rapporto con la Nato?

GC: La mia sensazione è che se si dovesse affermare Donald Trump il rapporto transatlantico sarà certamente più spigoloso di quello attuale. Con una amministrazione trumpiana che sicuramente incalzerebbe i partner europei, come ha fatto nel suo primo mandato, affinché essi riequilibrino e aumentino le loro spese nella difesa per raggiungere i parametri Nato. Ricalibrando finalmente l’onere che ora sostanzialmente grava soprattutto sui contribuenti americani.

Credo inoltre ci sarebbe sicuramente un ritorno a soluzioni protezionistiche più elevate di quelle attuali oltre che una maggiore preferenza per un approccio bilaterale rispetto ad un multilateralismo tipicamente democratico.

Quindi prevedo alcune discontinuità tattiche se vogliamo, ma non ipotizzo né una uscita dalla Nato degli Stati Uniti, né un approccio conflittuale e ostile con i Paesi europei, come tali ipotizzano. Ipotesi che a mio avviso oltre ad essere irreali sono assai fantasiose. Anche perché tra le figure chiave di una futura amministrazione trumpiana ci sono personalità evidentemente di chiara fedeltà atlantica come ad esempio Mike Pompeo.

Se invece si dovesse affermare Kamala Harris credo continuerà un approccio affine e in continuità con quello del presidente Biden, seppure declinato in una maniera più carismatica. Anche se credo che pure la Harris sarà molto attenta nello stimolare un maggiore impegno europeo nelle spese per la difesa in ambito atlantico, pur senza particolari attriti. Io credo, quindi, che l’Alleanza Atlantica non debba temere l’eventuale vittoria di uno dei due candidati né possa considerare una vittoria trumpiana un pericolo alla propria solidità. Anzi.

L’equivoco dell’isolazionismo

FS: Come pensa cambierà la bussola internazionale statunitense nell’eventualità di una nuova presidenza Trump e che ruolo potrebbe avere in questo Vance?

GC: Credo che Vance potrebbe spingere Trump verso posizioni che tradurrebbero sul piano internazionale le aspirazioni del Maga, con una maggiore distanza verso le grandi crisi dello scenario internazionale, ma non venendo mai meno agli american ideals and interests.

Poi vorrei aprire una piccola parentesi sulla cosiddetta “deriva isolazionista trumpiana”. Un’espressione evocata spesso con scandalo o con stupore verso la politica estera statunitense proposta dal tycoon, ma la cui demonizzazione mi sembra impropria. La storia del Partito Repubblicano, del resto, è stata caratterizzata da una lunga tradizione isolazionista che va dal presidente Harding e arriva fino alla Grande Depressione e che ha avuto nel tempo varie riprese e rinascite di spessore, oltre che radici antiche e ben inserite nella storia statunitense.

Basti pensare che il primo vero discorso “isolazionista” fu quello di George Washington il 17 settembre del 1796 con il suo Farewell Address. In cui l’ex presidente americano sottolineava la necessità di non istaurare alleanze permanenti, ma di ridefinire e contestualizzare i propri foreign affairs sulla base di visioni che privilegino il benessere del popolo americano.

La polemica di Vance sul ruolo degli Usa non è quindi una rottura o un tradimento con la storia e i valori americani, ma si inserisce in una sensibilità e in una bussola che è appartenuta storicamente ad una parte degli Usa. Una interpretazione quella di Vance che non contesta solo l’interventismo democratico di stampo messianico e moralista da Wilson a Biden, ma anche quello neocon basato sulla pretesa dell’esportazione della democrazia. Predicando, invece, un realismo politico che potrebbe declinare verso una logica non interventista, ma non per questo chiusa in un isolamento politico.

Un aspetto che mi appare poco credibile anche alla luce delle esperienze della precedente presidenza Trump… Ebbene, io credo che gli Usa saranno, quindi, anche con e Trump Vance sempre un partner ineludibile del mondo occidentale (specie di Israele) e dell’Europa soprattutto.

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