Si è concluso il 30 gennaio il vertice internazionale “Italia-Africa. Un ponte per la crescita comune” organizzato per presentare il Piano Mattei, il progetto strategico di cooperazione allo sviluppo che l’Italia propone all’Africa e all’Unione europea. Vi hanno partecipato capi di stato, di governo e ministri di 25 Stati africani, il presidente dell’Unione Africana, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, i vertici dell’Unione europea, il vicesegretario dell’Onu, i rappresentanti della African Development Bank, della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, della Banca europea per gli investimenti, di diverse agenzie delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali ancora.
Le attività del vertice si sono articolate in cinque sessioni dedicate alle cinque materie individuate dal governo italiano come prioritarie: cooperazione in campo economico e infrastrutturale, sicurezza alimentare, sicurezza e transizione energetica, formazione professionale e cultura, migrazioni, mobilità e questioni di sicurezza.
In apertura dei lavori sono state ricordate le motivazioni che hanno portato alla elaborazione del Piano Mattei: l’esistenza cioè di problemi che Europa e Africa condividono e la necessità di affrontarli in un modo nuovo.
La risposta dell’Africa
La risposta africana è stata tutto sommato soddisfacente. Per il presidente dell’Unione Africana, Azali Assoumani, il vertice ha rappresentato “una eccellente opportunità per rinsaldare i legami molto forti tra Italia e Africa”. Più cauto, sebbene fiducioso che il Piano Mattei possa dare buoni frutti, è stato il presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki. “L’Africa non chiede aiuto. Non siamo mendicanti”, ha tenuto a rimarcare nel suo intervento.
Quindi ha affermato che due principi devono essere presi in debita considerazione nella gestione della partnership. “Il primo – ha spiegato – è quello della libertà: la partnership internazionale dell’UA poggia sul concetto di libera scelta del partner e non si basa su nessun blocco. Quando interagiamo con un partner siamo attenti a mantenere la nostra totale libertà di assicurare la varietà dei nostri partner. Non imponiamo niente ai nostri partner e loro non devono imporre niente a noi”. In altre parole, Faki ha ammonito che quello con l’Italia e con l’Ue non sarà un rapporto esclusivo.
Il secondo principio è quello dei vantaggi reciproci. “L’Africa non si presenta al partenariato a mani vuote, come un povero – ha detto – l ’Africa si impegna secondo un rapporto equilibrato, con benefici reciproci e condivisi. Questo è ciò che renderà la nostra partnership attraente e incentivante”.
Faki ha poi concluso il suo discorso con una obiezione e una raccomandazione. Sui contenuti del Piano Mattei “avremmo voluto essere consultati”, si è lamentato, e inoltre “devo sottolineare – ha detto – la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non ci possiamo accontentare di promesse che spesso non vengono mantenute”.
Dalle parole ai fatti
Dalle parole ai fatti, il primo ministro Giorgia Meloni durante la sessione plenaria che ha dato inizio ai lavori ha annunciato che il Piano Mattei può contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie e che, oltre alle materie prioritarie sulle quali lavorare, sono già stati individuati anche dei Paesi pilota nei quali avviare i primi progetti.
Ancora una volta, poi, ha ripetuto, come ha fatto in diverse occasioni nei mesi precedenti, che “l’obiettivo del Piano Mattei è presentare la nostra visione di sviluppo, un approccio nuovo, non predatorio, non paternalistico, ma neanche caritatevole, un approccio da pari a pari, per crescere insieme” e, a questo proposito, si è detta certa della concreta volontà da parte di tutti di scrivere una nuova pagina basata su una cooperazione strutturale, “lontana dall’approccio predatorio che per troppo tempo ha impedito all’Africa di progredire”.
Le incognite
Adesso il Piano Mattei entrerà nella fase operativa. Le sfide e le incognite sono tante. Per prima cosa, presto si vedrà se e quali governi africani, al di là delle virtuose dichiarazioni ufficiali, davvero ne condividono gli obiettivi. L’incognita principale infatti è quanti sono gli africani disposti ad abbandonare, anche loro, l’attuale approccio predatorio nei confronti delle risorse del Continente, quanti cioè non sono più disposti a tollerare la corruzione eretta a sistema e le casse statali usate come patrimoni personali a cui attingere.
Quanti, in sostanza, finalmente vogliono davvero lo sviluppo dei loro Paesi, perché finora troppi hanno dimostrato di non volerlo ed è questa loro scelta, più di qualsiasi altro fattore, che ha impedito all’Africa di progredire quanto avrebbe potuto.
Il caso Nguema
Niente e nessuno ha mai costretto ad esempio la famiglia Nguema a lasciare nella povertà estrema il suo piccolo Paese, la Guinea Equatoriale. Ha scelto di farlo. Teodoro Nguema governa dal 1979, quando ha preso il potere con un colpo di stato. Da allora dispone della Guinea, delle sue risorse, dei suoi abitanti a propria discrezione, come fossero sua proprietà, una immensa tenuta privata.
Dagli anni ’90 del secolo scorso la produzione ed esportazione di petrolio ha reso la famiglia ricca al punto di rimandare lo sfruttamento delle altre immense risorse minerarie del Paese. A Roma era presente il vicepresidente, Teodorin Nguema, uno dei figli del capo dello stato, famoso per la sua arroganza e il suo dispendioso stile di vita: colleziona Bugatti, viaggia su jet personali, ha ville, yachts e altre proprietà sparse per il pianeta (un suo yacht, da 90 metri, lo scorso novembre si trovava al largo di Bari, tiene la maggior parte delle sue Bugatti in Svizzera…).
Quello della Guinea Equatoriale è un caso estremo, ma neanche tanto. Non c’è Stato africano privo di risorse naturali e non c’è stato in cui non vengano predate dai suoi abitanti, se appena riescono. Per questo il controllo delle istituzioni politiche è così importante, vale brogli elettorali, repressione cruenta delle opposizioni e conflitti armati. In Etiopia il tentativo dei tigrini di riprendere il potere perso nel 2018 ha scatenato una guerra costata mezzo milione di morti in due anni, dal 2020 al 2022.
Trent’anni fa una studiosa africana, Axelle Kabou, ha scritto un libro nel quale ha posto un interrogativo: “E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?” Alla luce di quanto è successo nel frattempo, è una domanda ancora drammaticamente attuale.