Esteri

Prima condanna per Trump: ecco come lo hanno incastrato le toghe di sinistra

Processo farsa. Ecco come il procuratore Bragg e il giudice Merchan hanno indirizzato la giuria verso la condanna, nonostante il caso, semplicemente, non ci fosse

Trump condanna (cspan) Donald Trump dopo la condanna a Manhattan

Arrivata la prima attesa condanna per Donald Trump. I dodici giurati newyorchesi del processo “Hush-Money” l’hanno giudicato colpevole di tutti i 34 capi di imputazione, tutti per falsificazione di documenti aziendali, relativi al pagamento del “silenzio” della pornostar Stormy Daniels e della modella Karen McDougal nel 2016 e 2017.

“È stato una vergogna. Un processo truccato da parte di un giudice in conflitto e corrotto. Un processo truccato e vergognoso“, ha commentato Trump. Ma “il vero verdetto sarà pronunciato il 5 novembre dal popolo. E loro sanno cosa è successo qui. E tutti sanno cosa è successo qui”, ha aggiunto.

Si tratta della prima condanna penale della storia nei confronti di un ex presidente. Un verdetto su cui incombono molte ombre. Per l’uso politico della giustizia fatto dal procuratore di Manhattan Alvin Bragg, militante di sinistra la cui elezione è stata finanziata da George Soros e che promise ai suoi elettori di incriminare Trump, e dal giudice Juan Merchan, tutt’altro che imparziale, come vedremo, anche lui Democratico con la figlia nella Campagna Biden.

Ma anche per le conseguenze che può avere sul sistema giudiziario e sul sistema politico, già provati da una polarizzazione e da una instabilità che hanno superato i livelli di guardia.

L’impatto politico

Che succederà ora? In teoria, esiste la possibilità di quattro anni di carcere per l’ex presidente. Sarebbe assurdo, essendo Trump incensurato e il reato non violento, ma non da escludere considerando il giudice. Più probabile una pena con qualche grado di restrizione, come arresti domiciliari, libertà vigilata, multa e sospensione condizionale della pena, che avrebbero comunque un grave impatto sulla campagna elettorale e quindi un’influenza pesante sulla regolarità delle elezioni. Tutto è possibile, dopo un processo farsa del genere. La decisione a luglio.

Che impatto avrà questa condanna sulle elezioni di novembre? Motiverà ancora di più i supporters dell’ex presidente, certamente. E certamente aiuterà il presidente Biden a mobilitare, cosa di cui ha disperato bisogno, gli sfiduciati elettori di sinistra. E i pochi ma forse decisivi elettori indipendenti rimasti, cosa faranno? E se la sentenza dovesse essere ribaltata, come possibile, in appello? Ci vorrà comunque tempo e non è escluso arrivi alla Corte Suprema. E se Trump riuscisse comunque ad essere rieletto?

Caccia in scatola

La condanna e l’accusa stessa sono una totale forzatura dal punto di vista legale, come abbiamo già avuto modo di osservare qui su Atlantico Quotidiano dopo l’incriminazione. Una “caccia in scatola” l’ha definita il giurista Jonathan Turley, cioè una caccia in cui la preda era già di fatto in trappola. Prima che la giuria si ritirasse per deliberare, infatti, il giudice Merchan nelle sue istruzioni cautelative aveva già indirizzato la decisione.

Chi ha seguito in prima persona il processo, come Turley, ha evidenziato le numerose violazioni dei diritti della difesa permesse dal giudice Merchan. Nelle arringhe finali, dove stranamente la difesa è stata chiamata a parlare per prima, quindi senza possibilità di replicare alle argomentazioni conclusive dell’accusa. Ma anche nelle testimonianze su fatti non accertati.

Inoltre, nelle sue istruzioni alla giuria, il giudice ha stabilito che i giurati non dovessero trovarsi per forza tutti d’accordo sui tre presunti reati evocati dall’accusa come “mezzi illegali” per influenzare le elezioni, il verdetto sarebbe stato considerato unanime purché ciascun reato fosse stato riconosciuto da almeno quattro giurati.

Il principale punto debole

Ma ancora prima delle istruzioni alla giuria, il processo è sembrato discutibile fin dalle sue premesse a molti commentatori sia conservatori che liberal. Il principale punto debole dell’accusa è nella domanda: ma quale reato avrebbe voluto nascondere Trump con la falsificazione di documenti aziendali contestata? Già, perché senza questo il caso semplicemente non c’è.

Questa premessa è fondamentale per comprendere come questo caso non abbia fondamento. La legge prevede infatti che per essere punibile penalmente la falsificazione di documenti aziendali l’accusa debba dimostrare che l’imputato ha falsificato i suoi libri contabili allo scopo di nascondere “un altro crimine”. Il che nel caso di Trump non è avvenuto o è indimostrabile.

Secondo il teorema accusatorio del procuratore Alvin Bragg, quest’altro crimine sarebbe la violazione dei limiti di contributo elettorale e dei requisiti di rendicontazione delle spese elettorali stabiliti dal Federal Election Campaign Act (FECA) – violazioni su cui tra l’altro Bragg non avrebbe nemmeno giurisdizione, trattandosi di una legge federale sulla campagna federale.

Come candidato, Trump non aveva limiti di contributo, ma secondo l’accusa avrebbe indotto il suo ex avvocato Michael Cohen e l’ex ceo di American Media David Pecker a superare i loro tetti di donazione pagando gli accordi di non divulgazione con la pornostar Stormy Daniels e alla modella Karen McDougal – ritenuti quindi spese elettorali, il che come vedremo non è affatto pacifico.

Il FECA tra l’altro richiede la prova che l’accusato fosse consapevole di avere un dovere legale e abbia agito intenzionalmente per violarlo. Ma non ci sono prove che Trump stesse pensando a violare il FECA nel 2016 e 2017, gli anni in cui, rispettivamente, furono negoziati gli accordi con le due e Cohen fu rimborsato. Quando la loro esistenza è trapelata nel 2018, la Commissione elettorale federale ha avviato un’indagine che però non ha portato ad alcuna azione nei confronti di Trump.

L’intenzionalità

Tuttavia, il giudice Merchan ha permesso all’accusa di colmare questo vuoto nel suo caso con prove inammissibili nei confronti di Trump, ovvero le dichiarazioni di colpevolezza di Cohen e una multa pagata da Pecker, in modo da indurre la giuria a pensare che la violazione del FECA fosse un fatto accertato piuttosto che qualcosa che l’accusa doveva ancora dimostrare.

Il procuratore Steinglass ha presentato alla giuria come fatto accertato che Cohen avesse commesso una violazione della legge elettorale federale su ordine diretto di Trump. Nonostante avesse ripetutamente affermato che la precedente dichiarazione di Cohen non poteva essere utilizzata per implicare la colpevolezza di Trump, Merchan ha poi respinto un’obiezione e lasciato che Steinglass continuasse, come aveva fatto in precedenza durante il processo, a ripetere questa falsità.

L’intenzionalità, come detto, è l’elemento determinante. Ma le intenzioni di Cohen e Pecker nel 2018 non possono essere la prova di quelle di Trump nel 2016-2017, quando si verificarono i 34 presunti falsi contabili. “Bragg deve ancora dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio – osserva l’ex procuratore Andrew McCarthy – che Trump abbia agito intenzionalmente“, cioè “pienamente consapevole di avere obblighi legali ai sensi del FECA e che abbia intenzionalmente violato tali obblighi. Non c’è assolutamente alcuna prova nei documenti che abbia preso in considerazione il FECA, per non parlare di averla violata intenzionalmente“.

Il giudice Merchan ha superato il problema nelle sue istruzioni ai giurati, ricordando loro che è illegale per una persona effettuare o provocare “volontariamente” contributi che superino i limiti del FECA. Ma non ha spiegato loro cosa significhi “intenzionalmente”.

Il concetto di spese elettorali

Ancora peggio ha fatto Merchan con le istruzioni alla giuria su cosa sia una spesa elettorale. Tecnicamente, spiega McCarthy, è tale se “ciò che viene acquistato è intrinsecamente parte di una campagna politica“. Non è tale, secondo il FECA, “se l’obbligo che l’ha originata sarebbe esistito indipendentemente dal fatto che ci fosse o meno una campagna”.

Pagare un falso dossier su un candidato concorrente, come ha fatto Hillary Clinton nel 2016 con il “dossier Steele” e la bufala Russiagate, è spesa elettorale. Ma come osserva McCarthy, potrebbero esserci molte ragioni che non hanno nulla a che fare con la campagna per pagare accordi di non divulgazione come quelli con Stormy Daniels e Karen McDougal, soprattutto per una celebrità del mondo del business e dello spettacolo come Trump – per salvaguardare il suo rapporto coniugale o un affare, per esempio.

La difesa ha provato a spiegare alla giuria questi concetti per dimostrare come non vi era stata alcuna violazione del FECA chiamando sul banco dei testimoni Ben Smith, ex presidente della Commissione elettorale federale (chi meglio di lui?), ma incredibilmente il giudice non ha ammesso la sua testimonianza.

Di conseguenza, non solo i giurati sono stati privati della spiegazione di un testimone esperto su un concetto chiave del caso, ma il giudice ha permesso che venisse loro detto ripetutamente che c’erano state violazioni della legge sulla campagna federale commesse da Trump, ammettendo le testimonianze di Cohen e Pecker, mentre il governo federale non ha mai sanzionato l’ex presidente, né tanto meno mosso accuse penali nei suoi confronti per tali violazioni.

La questione non era se chi ha sostenuto la spesa l’avrebbe pagata in assenza della candidatura di Trump. Probabilmente no, come ha testimoniato Cohen. La vera questione è se la spesa avrebbe potuto essere pagata per ragioni diverse dalla candidatura. Questa è la differenza che per il FECA rende una spesa elettorale o meno. Ma era necessario che la giuria lo credesse, perché per essere punibile penalmente il falso in bilancio dev’essere commesso allo scopo di nascondere la commissione di un reato.

Giuria orientata

“L’accusa è scandalosa – conclude McCarthy – non solo perché Bragg pretende di far rispettare la legge federale nonostante non sia di sua giurisdizione. È scandalosa perché Bragg e Merchan hanno inventato una loro versione della legge federale sulla campagna elettorale, una versione che ha indirizzato la giuria verso la condanna di Trump”.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde