Quarta incriminazione per Trump, anche questa politica e fallata

Il caso in Georgia ha un grosso problema (l’assurda accusa di criminalità organizzata), ma è anche il più pericoloso. Quattro casi deboli progettati per ottenere condanne rapide da giurie prevenute

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Quarta incriminazione per l’ex presidente Donald Trump, anche questa ampiamente attesa, e anche questa con più di un’ombra di politicizzazione. Tutte incriminazioni per fatti a cavallo tra il 2020 e 2021, o risalenti addirittura al 2015-2016, però formalizzate solo dopo l’annuncio ufficiale della sua ricandidatura alla Casa Bianca. Si aggiungono altri 13 capi di imputazione, per un totale di 91.

Ovviamente la notizia è stata rilanciata nell’arco di minuti dai media al di qua dell’Atlantico, gli stessi che continuano invece a sopprimere le notizie sulle prove di corruzione dei Biden emerse dal Congresso, di cui potete leggere sul nostro sito e pochi altri.

L’incriminazione è partita con un piccolo giallo che non contribuisce certo alla serenità del procedimento. L’atto è stato pubblicato sul sito della Contea di Fulton, e subito rimosso, prima ancora che il Gran Giurì avesse deciso. Insomma, i giochi erano fatti. Inoltre, la signorina a capo dei giurati aveva tempo fa rilasciato una intervista alla Nbc non nascondendo la sua eccitazione per una eventuale incriminazione dell’ex presidente Trump e rivelando di essere a contatto con fonti dell’accusa.

Il voto in Georgia

Trump, e 18 suoi collaboratori, tra cui Rudy Guiliani e Mark Meadows, sono accusati dalla procuratrice della Contea di Fulton, Fani Willis, Democratica (come il procuratore di Manhattan Bragg), di aver tentato di ribaltare l’esito delle elezioni presidenziali del 2020 in Georgia, che come ricorderete fu contestatissimo.

In questo come in altri stati chiave, l’ex presidente aveva un cospicuo vantaggio di voti durante la notte elettorale, poi l’interruzione per qualche ora dei conteggi, e alla ripresa la rimonta e il sorpasso di Biden. Voti postali, che continuarono ad arrivare ed essere conteggiati per diversi giorni oltre la chiusura delle urne. In particolare, nella Contea di Fulton, la presunta rottura di una tubatura dell’acqua costrinse a sospendere le operazioni, ma pare non per tutti…

Una delle implicazioni di questi processi contro Trump è che alla difesa dovrà inevitabilmente essere consentito di portare elementi di prova a sostegno di frodi e irregolarità elettorali, riaprendo così il caso delle elezioni 2020.

La telefonata

La prova regina dell’accusa è la ampiamente citata telefonata, che emerse già nei primi giorni di gennaio 2021, in cui Trump chiedeva al segretario di Stato, Brad Raffensperger, di “trovare” i voti che gli mancavano per assicurarsi la vittoria in Georgia (“I just want to find 11,780 votes, which is one more than we have because we won the state”).

Come noto, l’ex presidente era convinto di aver vinto e che l’elezione gli fosse stata rubata. Sostanzialmente, durante la telefonata si svolge una discussione tra il team Trump e i funzionari statali: la richiesta del presidente Trump è un riconteggio in tutto lo stato, essendo il margine di differenza tra lui e Biden di nemmeno 12 mila voti.

Quindi tutto dipende da come si interpreta la sua richiesta: trovare voti esistenti ma, a suo avviso, fatti sparire o spariti per errore, o fabbricarne di inesistenti per assicurarsi la vittoria sfuggita? La lettura a nostro avviso più obiettiva è che Trump stesse contestando le affermazioni dei funzionari statali, secondo i quali un riconteggio sarebbe stato inutile, sottolineando che non ci voleva un numero statisticamente così elevato di voti per modificare l’esito in Georgia. Significativo che molti politici e osservatori, e a quanto pare la procura, si rifiutino persino di considerare questa interpretazione alternativa, che a noi pare la più verosimile.

I tweet

La telefonata incriminante è talmente debole come prova che il pubblico ministero nel suo atto di accusa ha cercato di non farne la prova centrale, includendo nella presunta condotta criminale ogni telefonata, ogni discorso e ogni tweet di Trump, e non solo, con esiti però a volte tragicomici. Vengono individuati dalla pubblica accusa come “atti palesi a sostegno della cospirazione” messaggi e tweet, di Trump e degli altri imputati, in cui si invitano le persone a guardare la tv, o a presenziare alle audizioni dell’assemblea legislativa statale, o in cui si chiedono numeri di telefono, e persino la prenotazione di una sala del Campidoglio per una riunione.

Le macchine per il voto

Una delle accuse ai membri del team Trump è di aver cercato di accedere alle macchine per il voto. Ma anche qui: per manipolarle e ribaltare l’esito del voto, o per dimostrare che potevano essere compromesse o manipolate? Tra l’altro, secondo quanto riferito, l”invito” ad accedere alle macchine arrivò da un funzionario elettorale della Contea di Coffee, che avrebbe anche affermato, erroneamente, che i voti potevano essere “facilmente” spostati da Trump a Biden.

Insomma, il rischio qui è che se un candidato con il suo team cerchi di dimostrare che il voto è stato truccato ai suoi danni, si trovi egli stesso accusato di cercare di ribaltare l’esito del voto.

Casi simili

Il caso è simile a quello di Washington – la condotta criminale che Trump avrebbe messo in atto per rimanere al potere nonostante abbia perso le elezioni – ma a livello statale anziché federale. Maggiori difficoltà dal punto di vista legale per il procuratore speciale Jack Smith, secondo l’ex procuratore Andrew McCarthy, perché “gli statuti penali federali che ha invocato – relativi a frode, ostruzione e diritti civili – non prendono di mira in modo chiaro e ristretto il tipo di condotta in cui si è impegnato Trump”. Ha quindi dovuto ricorrere ad una interpretazione volutamente forzata di alcuni reati penali.

Al contrario, Fani Willis potrebbe avere una strada più spianata. Questo perché, ha spiegato McCarthy sul New York Post, “il sistema federalista progettato dalla nostra Costituzione attribuisce agli Stati la responsabilità primaria di condurre e sorvegliare le elezioni”. Quindi, ci sono leggi più specifiche sulle irregolarità elettorali e i tentativi di sovvertire i processi statali per il conteggio e la certificazione dei voti.

Una grossa falla nel caso

E invece, Willis sta usando il RICO, ovvero la versione georgiana del Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act, al posto del più semplice reato di “cospirazione”, per cercare di coprire il grosso buco nel suo caso. Il buco, come spiega Andrew McCarthy su National Review, è che l’obiettivo delle condotte descritte nelle sue 98 pagine di accuse – vale a dire, cercare di mantenere Trump al potere – non è un crimine di per sé, quindi non può esserci cospirazione.

Naturalmente, se le persone perseguono un obiettivo lecito attraverso mezzi illegali, commettono reati. Ma una cospirazione è un accordo tra due o più persone al preciso scopo di commettere un reato. E non è necessario che la cospirazione abbia successo per essere perseguibile, come nel caso di una banda di rapinatori arrestati prima di compiere una rapina in banca. Ma se un gruppo di persone intraprende delle azioni finalizzate ad un obiettivo che non è un crimine, non c’è cospirazione, anche se, ovviamente, alcune delle azioni possono singolarmente costituire reato.

L’assurda accusa di criminalità organizzata

La procuratrice Willis cerca di aggirare il problema ricorrendo al RICO, un reato associativo, dove l’essenza del reato è l’appartenenza all’“impresa”, una “associazione di fatto” dalla definizione ampia, che spazia da associazioni illecite per natura, come quelle mafiose, ad associazioni di per sé lecite. Ricade nel RICO “l’impresa” che conduce i propri affari con metodi di racket, mafiosi diremmo noi, tipiche della criminalità organizzata.

Rientra nel RICO far parte di una “impresa” che commette crimini per condurre i suoi affari, per esempio partecipare agli affari di una famiglia mafiosa, anche senza aver commesso un particolare crimine.

Qui sta l’errore del pubblico ministero: non potendo provare che Trump e i suoi 18 presunti complici hanno cospirato per fare qualcosa di illegale, li descrive come una “organizzazione criminale”, il cui fine non dev’essere per forza illecito ma è perseguito con mezzi illeciti. Ma la cosa è semplicemente assurda, perché i 19 imputati non sono nemmeno membri di un’unica organizzazione, tanto meno criminale.

L’obiettivo – lecito – era mantenere Trump al potere. Una volta che quell’obiettivo fosse stato raggiunto o definitivamente sfumato, il gruppo – nella dubbia misura in cui fosse davvero un gruppo identificabile – si sarebbe (e infatti si è) dissolto. Questo è un segno, conclude McCarthy, che non hai a che fare con una “impresa RICO”, il cui obiettivo è generare molti guadagni in un periodo prolungato e continuato di tempo. La legge richiede ai pubblici ministeri di dimostrare che le imprese RICO siano minacce permanenti, quindi uno scopo economico e una serie di attività (criminali e non) ne sono il presupposto.

Al contrario del procuratore speciale Smith, che non potendo formulare un’accusa di cospirazione complessiva, perché l’obiettivo di mantenere Trump al potere non era di per sé criminale, ha identificato delle fattispecie criminali reali, Willis ricorre al RICO, ma affermare che Trump e i 18 coimputati hanno orchestrato questa frode come parte di una “impresa” RICO, ovvero di una organizzazione criminale, non sta in piedi. Avrebbe potuto limitarsi a dimostrare frodi compiute per uno scopo legittimo, ma l’accusa di criminalità organizzata è più roboante.

Il caso più pericoloso

Secondo McCarthy, il caso contro Trump più solido è quello dei documenti classificati di Mar-a-Lago, perché “più facilmente dimostrabile la conservazione di intelligence della difesa nazionale, ed è avvenuto dopo le elezioni, quindi ci sono meno implicazioni costituzionali”.

Ma tra tutte le incriminazioni, questa della Georgia è nonostante tutto “la più pericolosa” per Trump. Perché mentre lo stesso Trump, se rieletto nel 2024, o un altro presidente repubblicano, potrebbero concedere la grazia, o chiedere al proprio Dipartimento di Giustizia di ritirare le accuse nei casi federali in Florida e a Washington, nessun presidente avrebbe l’autorità di grazia su accuse a livello statale.

Repubblica delle banane

Secondo l’avvocato e professore di diritto Alan Dershowitz, un liberal, “l’intera strategia di tutti e quattro questi casi è ottenere una condanna prima delle elezioni, anche se poi perderanno in appello”. Con un caso basato sul RICO, ma la stessa cosa vale per la cospirazione e altri reati che riguardano lo stato psicologico, ha spiegato Dershowitz a Fox News, “aumenti le tue possibilità di vincere in primo grado ma di perdere in appello. Quindi tutti e quattro questi casi sono progettati per ottenere condanne rapide in giurisdizioni che sono pesantemente prevenute contro Donald Trump“.

“Sono tra i quattro casi più deboli che abbia mai visto contro un candidato”, ha aggiunto, ma a questi procuratori “non interessa se la condanna viene annullata in appello, perché ciò accadrà dopo le elezioni”.

“Ma se stai perseguendo l’uomo che sta correndo contro il tuo presidente in carica, faresti dannatamente meglio ad avere il caso più forte possibile”. Altrimenti, è l’allarme lanciato da Dershowitz, “diventa una Repubblica delle banane“, dove “chiunque può perseguire chiunque. È ciò che ha scritto Alexander Hamilton in The Federalist, la minaccia più pericolosa per la democrazia, e la stiamo vedendo svolgersi davanti ai nostri occhi. Molto, molto tragicamente”.

E conclude: “Non sono un repubblicano, non sono un sostenitore di Trump, ma ci tengo molto alla Costituzione. Ci tengo profondamente a preservare lo stato di diritto. E lo stiamo vedendo gettato al vento per scopi politici di parte“.

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