La nottata più importante di ogni ciclo elettorale statunitense è arrivata e se n’è andata, senza cambiare di una virgola quello che si sapeva finora sulle prossime elezioni presidenziali. Non il massimo come incipit, lo ammetto, ma francamente chi mangia pane e politica a stelle e strisce, a questo punto, si sta francamente arrampicando sugli specchi. Anche chi, come il sottoscritto, ha parecchie elezioni sul groppone, non riesce più ad orientarsi in un panorama politico che sembra aver abbandonato ogni regola e convenzione.
Queste primarie dovrebbero essere già chiuse da almeno un mese e nessuno francamente riesce a spiegarsi come mai si stia continuando a spendere così tanti soldi prima di quelle che potrebbero essere le elezioni presidenziali più combattute e virulente degli ultimi 50 anni. I 15 stati chiamati ad esprimersi nel Super Tuesday hanno fornito una serie di indicazioni e verdetti che potrebbero aiutarci a capire come si evolverà ulteriormente il panorama politico statunitense. Vediamo quindi le lezioni di questa nottata e cosa possiamo aspettarci da qui a qualche settimana.
Ennesima vittoria schiacciante
Francamente non ricordo un Super Tuesday in tono così minore da quando ho iniziato a seguire la politica americana all’inizio degli anni ‘90. L’interesse per queste primarie è così basso che, ogni tanto, capita di trovarsi davanti al risultato di uno stato a sorpresa, senza che ti fossi segnato in agenda che si votava. Ancora prima di iniziare a seguire i 15 stati in ballo, nella nottata tra lunedì e martedì è arrivata la notizia nell’ennesima vittoria di Donald J. Trump, nel piccolo stato del North Dakota, anche stavolta con percentuali bulgare e tutti i delegati alla convention di Milwaukee in saccoccia.
Probabilmente al di fuori dalla Beltway ben pochi erano consci che domenica si sarebbe votato per le primarie nel District of Columbia, praticamente la città di Washington, un posto che farebbe invidia a Stalingrado in quanto a supporto per le politiche di sinistra. Se in passato le nottate del Super Tuesday vivevano dello stillicidio dei voti, del nervosismo per i risultati di questa o quella contea chiave, i political junkies hanno avuto davvero poco da celebrare.
Come sta diventando la norma, appena si sono chiuse le urne, uno stato dopo l’altro ha confermato le vittorie schiaccianti dei due candidati in testa, Donald Trump per il Partito Repubblicano e Joe Biden per il Partito Democratico. Nel caso dell’Arkansas, la NBC ha dichiarato Trump vincente quando erano stato scrutinati solo lo 0,1% dei voti ma, in fondo, il risultato è la cosa meno interessante di questa serata.
Le percentuali sono talmente schiaccianti da fare assomigliare le primarie del Gop alla gara in corso nel partito dell’Asinello, che ha un presidente incumbent a caccia del secondo mandato. Se i dati definitivi degli stati della costa occidentale (Alaska, California, Utah) arriveranno in mattinata, le vittorie per Trump arrivano con percentuali sempre più inequivocabili, con pochissime eccezioni.
I dati definitivi probabilmente aiuteranno a capire come sono andate le cose ma sembra di capire che Nikki Haley sia competitiva solo negli stati dove si tengono primarie aperte, le uniche dove i democratici possono darle una mano.
In Colorado, ad esempio, con il 28 per cento dei voti scrutinati, Trump ha il 55,4 per cento contro il 38,9 per cento della Haley, una differenza di quasi 30 mila voti che potrebbe essere recuperabile. La situazione è simile in Massachusetts, anche se qui i voti scrutinati sono solo l’11 per cento: Trump è avanti di circa 24 punti percentuali.
Negli stati più conservatori, il vantaggio dell’ex presidente è imbarazzante: il caso più eclatante si vede in Oklahoma, dove la Haley si è fermata al 15,1 per cento mentre Trump ha raccolto consensi di quasi sei volte superiori. Non può mancare l’eccezione, ovviamente: il minuscolo stato del Vermont, estremamente liberal, è l’unico che la Haley è riuscita a strappare. Basta però vedere di quanti voti stiamo parlando per rendersi conto che non cambierà niente: nel vicino stato della Virginia il numero di voti espressi è stato quindici volte superiore.
Perché la Haley non getta la spugna?
Nonostante la vittoria di Trump abbia proporzioni che sfiorano il ridicolo, tanto da raccogliere quattro volte più voti della sua unica rivale rimasta, quando si inizia a parlare dei numeri veramente importanti, ovvero i delegati alla convention, la situazione non è ancora del tutto definita. Per arrivare matematicamente al numero magico di 1.215, a Trump non basterebbero nemmeno tutti gli 895 delegati in palio stanotte ed è praticamente impossibile che se li aggiudichi tutti.
Anche se la Haley ha vinto solo nel piccolo stato del Vermont, alcune regole prevedono che, superata una certa soglia, almeno un delegato venga assegnato al candidato perdente. In Alabama, ad esempio, la soglia è del 15 per cento, mentre in Virginia la Haley è al momento sopra al 30 per cento, cosa che dovrebbe garantirle almeno 3 delegati.
Tutto lascia pensare che quando tutti i voti saranno contati, Trump chiuderà il Super Tuesday con più di mille delegati: questo vuol dire che il numero magico potrebbe essere superato il 12 marzo, quando si voterà nello stato della Georgia, uno degli swing states che potrebbero decidere le presidenziali. Con una serie di sconfitte del genere, la pressione nei confronti dell’ex governatore del South Carolina arriverà ai livelli di guardia.
Il panorama non è semplice, visto che le regole cambiano da stato a stato, con ben 421 delegati che si assegnano in blocco, andando tutti al vincitore delle primarie dello stato. La speranza è di mettere da parte abbastanza delegati da convincere i finanziatori della Haley, in gran parte democratici o repubblicani never Trump, a non staccare del tutto la spina. I 238 delegati in palio negli stati che prevedono una distribuzione lievemente proporzionale sono la sua unica speranza. Alcuni analisti della CBS News sono sicuri che se la Haley non riuscirà a chiudere il Super Tuesday con almeno 97 delegati in più, le sue speranze sarebbero ridotte al lumicino.
Con almeno dieci stati già dichiarati per Trump, al momento Nikki ha raccolto solo tre delegati in Virginia più i 17 dalle primarie aperte del Vermont, potrebbe arrivare ad una sessantina. A questo punto si tratta solo di capire se queste umiliazioni saranno sufficienti a costringerla a mollare o se continuerà a rimanere in gioco anche ora che le possibilità di vittoria sono vicine allo zero.
Quando l’ex governatore ha annunciato di non aver programmato un evento pubblico per il Super Tuesday, molti si sono detti sicuri che writing is on the wall e che la Haley si farà sicuramente da parte. Se il raccolto di delegati dovesse andare ben sotto le previsioni, sarebbe solo una questione di tempo prima dell’annuncio ufficiale del suo ritiro.
Qualche giorno fa aveva annunciato che non si sentiva obbligata a dare l’endorsement a Trump, cosa che aveva fatto sollevare parecchi sopraccigli. Il problema è che nessuno sa bene cosa farà la Haley: le voci di una candidatura indipendente si moltiplicano, anche se una mossa del genere avrebbe bisogno di una struttura sul territorio e capitali che sono ben oltre alle possibilità della sua campagna. Vedremo come andrà a finire.
Turnout basso: inevitabile o problema?
Il malumore che sta serpeggiando nel Democratic National Committee sembra alimentato in buona parte dai risultati degli ultimi sondaggi condotti immediatamente prima del Super Tuesday anche a livello nazionale. Le notizie in arrivo per Joe Biden difficilmente potrebbero essere peggiori: visto l’impatto devastante dell’inflazione e la riduzione massiccia del potere d’acquisto della classe media, ampie fasce dell’elettorato tradizionalmente democratico stanno spostandosi verso Trump.
A parte la conferma di uno smottamento dei blocchi afro-americani e latini, dove l’ex presidente potrebbe battere ogni record dai tempi di Eisenhower, ancora più preoccupante il fatto che Biden stia perdendo consensi sia nel pubblico femminile che in quella che da sempre è considerata la riserva di voti per i democratici, i giovani. Per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, la generazione che è appena entrata nel mondo del lavoro ha davanti prospettive estremamente difficili e si sta rendendo conto che comprare una casa e metter su famiglia sarà quasi impossibile.
Il dato più evidente si può notare nella riduzione del numero di elettori che si sono presentati alle urne. Se molti sembrano dare la colpa al fatto che sia nel Gop che nel Partito Democratico i giochi sono praticamente fatti, quello che gli analisti chiamano enthusiasm gap è abbastanza evidente. Il confronto tra il turnout nei due campi in uno degli stati più importanti dove si tenevano delle primarie aperte è emblematico.
In Virginia il numero di elettori che hanno scelto di partecipare alle primarie repubblicane è più del doppio di quanto si è visto tra i democratici. A beneficiarne, ovviamente, è stata Nikki Haley, che è riuscita a contenere i danni, perdendo per poco meno di 20 punti percentuali. Potrebbe benissimo trattarsi di una coincidenza o, più semplicemente, del fatto che tra i democratici non ci sono candidati interessanti: le cose sarebbero forse andate in maniera molto diversa se Robert Kennedy Jr non fosse stato praticamente cacciato dal partito.
Altri, invece, fanno notare come se all’interno del Gop la protesta contro Trump si possa esprimere attraverso il voto per la Haley, niente di simile è possibile nell’Asinello, visto che sia la Williamson che Phillips sono decisamente dei pesi leggeri.
Un’altra componente da non sottovalutare è quella di chi ha scelto di votare uncommitted, ripetendo la protesta della comunità araba in Michigan, che aveva causato più di un grattacapo alla campagna di Joe Biden. Questa iniziativa, voluta da alcuni gruppi della sinistra estrema per rendere pubblica la loro ferma opposizione alla posizione tenuta dall’amministrazione Biden nel conflitto in corso in Israele, ha raccolto circa il 7 per cento dei voti espressi in Colorado. Non abbastanza per mettere in dubbio la vittoria dello stato da parte del presidente in carica ma sufficienti per spostare i riflettori dei media su questa minoranza molto rumorosa.
Considerato che il DNC vede con crescente fastidio la sinistra estrema, l’ultima cosa della quale avevano bisogno è l’attenzione mediatica che attireranno queste proteste. Difficile che abbiano un qualsiasi ruolo nella probabile defenestrazione di Biden ma, comunque, potrebbero influire sulla propensione al voto di certe fasce dell’elettorato democratico. Considerato che in alcuni swing states le differenze saranno minime, potrebbero fare tutta la differenza del mondo.
Occhio a North Carolina e Texas
A parte le primarie per le rispettive convention dei partiti principali, si sono tenute anche molte primarie per scegliere i candidati a parecchie gare down ballot, ovvero presenti più in basso nelle spesso gigantesche schede elettorali che i votanti si vedono consegnare quando arrivano al seggio. Ci sarebbero un’infinità di gare affascinanti ma chiaramente non abbiamo tempo di occuparci di ognuna di queste competizioni, nonostante abbiano candidati spesso singolari.
Un paio di gare, però, potrebbero avere conseguenze pesanti sulle presidenziali a novembre, come la gara per il governatore dell’importante stato del North Carolina, uno di quelli che la campagna di Biden avrebbe messo nel mirino per garantirsi un secondo mandato. Come previsto ampiamente, il vice-governatore in carica Mark Robinson ha vinto la nomination del Partito Repubblicano mentre Josh Stein, l’attorney general, è stato scelto dagli elettori democratici, aprendo una sfida sicuramente intrigante tra due stelle nascenti della politica locale.
A parte l’importanza dal punto di vista politico, il North Carolina è uno degli stati in crescita dal punto di vista economico e culturale: questo si nota dal fatto che la sfida tra Robinson e Stein potrebbe diventare la campagna più costosa a parte la corsa per la Casa Bianca. Il vice-governatore si è fatto notare per alcune dichiarazioni sopra le righe, il suo ruolo preminente nella cosiddetta culture war e per il sostegno assoluto per le politiche del movimento America First.
Questo sarebbe sufficiente per far sorridere parecchi all’interno della campagna di Joe Biden: gli esperti incaricati dal presidente in carica si dicono sicuri che sia possibile strappare il North Carolina a Trump e che la presenza di un candidato a governatore così controverso potrà aiutare il presidente. Secondo quanto riportato da Politico un senior campaign advisor ha dichiarato che “il Gop ha nominato a governatore una persona che ha definito le persone Lgbtq ‘spazzatura’, ha minacciato rappresentanti del governo con armi d’assalto ed ha più volte citato Adolf Hitler. Un terzo dei partecipanti alle primarie del Gop non voterebbero per Trump alle presidenziali. Direi che lo stato è in ballo”.
Allo stesso tempo l’attenzione della campagna di Biden sembra concentrata sul Texas, dove Ted Cruz non aveva avversari e si è quindi aggiudicato automaticamente la nomination per il suo terzo mandato al Senato degli Stati Uniti. L’ex avvocato, dopo il fallimento della campagna presidenziale nel 2016, vinse per poche migliaia di voti nel 2018 e continua ad essere visto dai Democratici come uno dei senatori repubblicani potenzialmente battibili. Cruz si è costruito una forte reputazione al Senato come uno dei leader del partito, estremamente capace dal punto di vista procedurale e legale ma resta da capire quanto sia popolare in Texas.
A spuntarla nella estremamente competitiva primaria democratica è stato l’ex giocatore di football americano Colin Allred, che ha già servito per tre mandati come delegato al Congresso nel distretto 32 del Texas. Vista l’impopolarità di Biden nel Lone Star State, Allred ha già iniziato a smarcarsi, votando con il Gop per criticare le politiche applicate dall’amministrazione sulla gestione del confine con il Messico. Considerato che l’invasione in corso è il tema più sentito in Texas, probabile che Allred farà di tutto per mettere quanta più distanza tra sé e Biden. Vedremo se basterà per vincere quella che potrebbe essere la gara decisiva per il controllo del Senato.