La sera del 10 marzo è iniziato il mese di Ramadan, ma non la tregua chiesta, reclamata, supplicata in nome della popolazione esausta del Sudan dove dallo scorso aprile due generali lottano per il potere, indifferenti alle conseguenze sempre più drammatiche per il Paese e i suoi abitanti.
Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e della giunta militare che governa dal colpo di stato del 2021, controlla l’esercito nazionale composto da 120.000 militari. Mohamed Hamdan Dagalo, che fino all’anno scorso era il suo vice, guida le Forze di supporto rapido (RSF), un organismo paramilitare che conta 100.000 uomini.
La peggiore crisi umanitaria
Del tutto ignorata da quando i riflettori sono puntati sul Medio Oriente, la loro guerra ha causato la peggiore crisi del pianeta: almeno 9 milioni di profughi, la maggior parte sfollati, e più di 25 milioni di persone, oltre metà della popolazione, bisognose di assistenza. Si profila una carestia di proporzioni bibliche. “Dieci mesi di guerra hanno tolto loro praticamente tutto, la loro sicurezza, le loro case, i loro mezzi di sussistenza”, aveva detto all’inizio di febbraio Martin Griffiths, sotto segretario generale Onu per gli affari umanitari e coordinatore degli aiuti d’emergenza, spiegando che era necessario fare qualcosa con assoluta urgenza.
Invece, le agenzie umanitarie non sono state in grado di intervenire in molte aree del Paese. Il governo ha accettato solo da qualche giorno che arrivino soccorsi dal Chad e dal Sudan del Sud, due stati con cui il Sudan confina, e ha permesso l’atterraggio degli aerei che trasportano aiuti in tre aeroporti. Aveva bloccato gli aiuti dal Chad sostenendo che gli Emirati Arabi Uniti si servivano dei convogli umanitari per fornire armi alle RSF e questo ha lasciato senza assistenza gli abitanti della regione del Darfur dove i combattimenti sono più intensi, milioni di persone.
Anche gli aiuti via mare sono stati a lungo fermi a Port Sudan prima che le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative ottenessero nei giorni scorsi l’autorizzazione a inoltrarsi nel Paese. Come se non bastasse, a peggiorare la situazione contribuiscono i frequenti attacchi agli operatori e ai convogli per saccheggiarne i carichi.
La denutrizione, i disagi di vivere per mesi in ripari di fortuna minano la salute dei più fragili, delle persone già ammalate e soprattutto dei bambini e degli anziani. Ma ricorrere a cure mediche è sempre più difficile. Da mesi decine di ospedali sono stati chiusi per mancanza di personale e medicinali, per primi i migliori, quelli della capitale Khartum dove la guerra è incominciata. Quelli ancora funzionanti per lo più lavorano in condizioni proibitive, senza rifornimenti, manutenzione, spesso senza energia elettrica. Le vie di comunicazione danneggiate o insicure comunque rendono difficile raggiungerli.
Si ritiene che le vittime civili siano già da 13 a 15mila, uccise durante gli scontri armati e, nel Darfur, per odio etnico, ma questa stima non tiene conto di tutte le persone morte per denutrizione, malattie, mancanza di cure. Mygoma, un istituto statale della capitale che ospitava centinaia di bambini orfani, è stato abbandonato da quasi tutto il personale. Decine di bambini sono morti di stenti prima che a fine giugno dei volontari organizzassero un convoglio e, a rischio della vita perché hanno dovuto attraversare quartieri in cui si sparava, riuscissero a trasferirli in un luogo sicuro.
Sembra che i soldati dell’esercito governativo per mesi non siano stati pagati, che molti, di entrambi i fronti, combattano in sandali, addirittura senza insegne e uniformi il che provoca frequenti perdite da fuoco amico. Ma non per questo i due generali accetteranno di sedersi al tavolo delle trattative al quale da mesi si tenta di portarli. In Etiopia la guerra tra Tigrini e governo centrale – anche il quel caso due eserciti – ha provocato da 500.00 a 600.000 morti, tra militari e civili. Tuttavia, nonostante le perdite enormi, è durata due anni, dal 2020 al 2022.
Sponsor internazionali
Difficilmente ordineranno ai loro uomini di deporre le armi presto. Possono anche essere mal vestiti e scalzi, ma i soldati sudanesi sono ben addestrati e bene armati. Forse servirebbe se i due generali non ricevessero più risorse, armi, rifornimenti dai Paesi schierati con loro. I più importanti sostenitori del generale Dagalo sono gli Emirati Arabi Uniti e la Russia. Inoltre al suo fianco ha i mercenari del gruppo Wagner ai quali, in cambio, consente di sfruttare le miniere d’oro che controlla.
L’alleato più forte del generale al-Burhan è l’Egitto. Di recente può contare anche sull’Iran che gli ha fornito armi e servizi di intelligence grazie ai quali ha lanciato una controffensiva dopo settimane di sconfitte e ha riconquistato la città gemella della capitale, Omdurman, dove si trova la sede centrale dell’emittente statale. Inoltre ha chiesto e ottenuto aiuto dall’Ucraina. I primi militari ucraini, principalmente dell’unità Tymur, sono arrivati in Sudan lo scorso anno in tempo per aiutarlo a lasciare la capitale, ormai circondata dalle RSF, e riparare a Port Sudan.
C’è una differenza fondamentale tra gli interventi in Sudan rispetto ad altri ed è importante evidenziarla. In altre situazioni, dei Paesi stranieri, seppure motivati dall’interesse di stabilire rapporti economici e politici proficui, sono intervenuti a sostegno di governi e popoli africani minacciati da gruppi ribelli o jihadisti. Nella Repubblica Centrafricana, ad esempio, i mercenari russi della Wagner, anche lì in cambio dell’accesso alle miniere di oro del Paese, difendono la regione della capitale Bangui dalle decine di gruppi armati che controllano tre quarti del territorio nazionale e ne garantiscono la sicurezza.
Dovrebbe presto diventare operativa anche una compagnia di sicurezza privata Usa, la Bancroft Global Development, con la quale il governo centrafricano dalla fine del 2023 è in trattative. In Mali, Burkina Faso e Niger truppe francesi e di altri Stati europei fino al 2022 hanno contrastato i gruppi jihadisti che infestano il Sahel. Adesso ci provano la Russia e i Wagner. Da 20 anni in Somalia la presenza di truppe internazionali difende la capitale Mogadiscio e impedisce al gruppo jihadista al Shabaab di avere il sopravvento. Non si tratta mai di interventi risolutivi perché non rimuovono le cause interne che hanno provocato le crisi, ma risultano efficaci a limitare i danni.
Invece in Sudan i soldati russi e ucraini e gli Stati schierati su fronti opposti – Egitto, Yemen, Iran, Arabia Saudita, Qatar… – alimentano con il loro sostegno e le loro ingerenze una guerra voluta da due militari al solo scopo di sopraffare l’avversario. Ne approfittano, disposti a prolungarla e a renderla più cruenta – perché questo è il risultato – se serve a conquistare posizioni nel continente africano, incuranti delle conseguenze tanto quanto i generali Dagalo e al-Burhan.