Non solo Matteo Salvini, anche Marco Minniti e Federica Mogherini sono stati denunciati alla Corte penale internazionale (Cpi) da una organizzazione non governativa tedesca. L’accusa è di aver commesso crimini contro l’umanità nei confronti degli emigranti illegali che tentano di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo.
Esaminati i capi d’accusa, la Cpi potrebbe decidere di emettere contro uno di loro o contro tutti un mandato d’arresto internazionale. Allora il nostro Paese e ogni altro Stato membro della Cpi (che ne ha cioè ratificato lo statuto costitutivo, noto come Statuto di Roma) potrebbe, anzi dovrebbe consegnarli alla giustizia internazionale.
La giurisdizione
Gli Stati membri, in tutto 123, sono infatti tenuti a fermare ed estradare le persone incriminate qualora vivano o transitino entro i loro confini nazionali. In pratica, se il governo italiano non desse seguito al mandato, potrebbero essere arrestati dalle autorità di un qualsiasi Paese membro non appena vi mettessero piede, ad esempio per partecipare ad un vertice internazionale o per trascorrervi una vacanza.
Inizierebbe per loro un lunghissimo periodo di detenzione nelle carceri della Cpi all’Aia dove il tribunale ha sede: anni, in attesa che il processo venga istruito e si arrivi a una sentenza.
La Cpi ha giurisdizione sovrannazionale su crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione commessi da individui, non da Stati, sul territorio di uno Stato membro o, dovunque sia, dai cittadini di uno Stato membro. Istituisce processi solo se gli imputati possono essere presenti in aula.
Il punto debole della Corte
Fortemente voluta in Italia dal Partito Radicale, è attiva dal 2002. La sua costituzione era stata trionfalmente annunciata come un traguardo di portata storica per l’umanità. Ma i suoi promotori non si sono resi conto di un fondamentale punto debole dell’organismo, di rilevanza decisiva: vale a dire che la Cpi non ha modo di indurre i molti Stati che non ne sono parte a collaborare e, in realtà, neanche di imporre alcunché agli stessi Stati membri.
In altre parole può emettere mandati di comparizione e di arresto, ma non dispone di strumenti propri per farli eseguire. Se le persone incriminate non si consegnano spontaneamente, cosa che ancora non è successa, la Cpi dipende dalla volontà dei governi.
Governi che, almeno finora, hanno consegnato volentieri gli indagati se erano avversari politici – ad esempio, l’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, sconfitto militarmente dall’attuale capo di Stato Alassane Dramane Ouattara con l’aiuto determinante della Francia, o Jean-Pierre Bemba, il più temibile avversario politico dell’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila.
Il caso Al Bashir
Ma non si affannano a tentare la cattura dei leader ribelli se questi si limitano a infierire sulla popolazione in aree remote dei loro Paesi – è il caso, ad esempio, di Joseph Kony, capo del feroce Lord Resistance Army attivo in Uganda – e proprio non si sognano di consegnare i propri leader e di soddisfare le richieste della Cpi, come ha clamorosamente dimostrato il caso dell’ex presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir.
Contro di lui la Cpi ha emesso un mandato internazionale di arresto nel 2009 con l’accusa di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità nella regione sudanese orientale del Darfur, seguito nel 2010 da un secondo mandato d’arresto essendo stata aggiunta alle precedenti l’accusa di genocidio.
Tuttavia, al Bashir è stato rieletto presidente pochi mesi dopo, nel 2010, e da allora non solo ha guidato incontrastato il suo Paese, ma ha effettuato soggiorni all’estero senza essere arrestato e consegnato alla Cpi.
Ha persino partecipato, nel 2012 in Ciad, alle nozze del presidente di quel Paese, Idriss Déby Itno, invitato insieme a Ibrahim Gambari, all’epoca capo dell’Unamid, la missione di peacekeeping istituita nel 2007 dall’Onu e dall’Unione Africana per proteggere le popolazioni del Darfur.
Entrambi sono stati ripresi mentre si sorridono e si salutano calorosamente. Nel 2019 al Bashir è stato deposto da un colpo di stato militare, arrestato e rinchiuso in carcere. Solo allora i nuovi leader hanno preso in considerazione la possibilità di consegnarlo alla Cpi e solamente nel 2021 si sono impegnati a farlo.
L’attività e i costi della Cpi
Ci sono voluti dieci anni perché la Cpi pronunciasse il suo primo verdetto: nel 2012, contro Thomas Lubanga, un altro avversario dell’ex presidente congolese Kabila. Oggi, in vent’anni di attività, ha istituito 31 processi in tutto, per un totale di 51 imputati, quattro dei quali assolti e dieci condannati. Per gli altri il processo è tuttora in corso.
L’attuale procuratore capo della Cpi, il britannico Karim Khan, sostiene che occorrono più risorse se si vuole che i lavori procedano più speditamente. Si fa fatica a credergli.
La Cpi ha 18 giudici a tempo pieno e 900 dipendenti, cittadini di circa 100 Stati. Ha costi di gestione cospicui, in continua crescita: 148 milioni di dollari nel 2021, 158 milioni nel 2022. Oltre alla sede centrale dell’Aja, ha un ufficio presso le Nazioni Unite a New York e sette uffici decentrati, due nella Repubblica democratica del Congo e uno in ciascuno dei seguenti Paesi: Uganda, Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Georgia e Mali. Le lingue di lavoro sono due: inglese e francese. Quelle ufficiali sono sei: oltre all’inglese e al francese, arabo, cinese, russo e spagnolo.
Meglio uscire dalla Cpi
Le denunce contro Minniti, Salvini e Mogherini dovrebbero decidere l’Italia a uscire finalmente dalla Cpi alla quale avrebbe fatto meglio a non aderire, sull’esempio di decine di Paesi – 71 per l’esattezza sui 194 del pianeta – che hanno correttamente valutato la sua scarsissima, per non dire nulla utilità e, per contro, l’uso politico e ideologico al quale può prestarsi.