Se è vero che si impara più dalle sconfitte che dalle vittorie si prospettano tempi duri per il Partito Democratico americano. Ancora 48 ore dopo la clamorosa sconfitta di Kamala Harris nella corsa alla Casa Bianca, pare che l’Asinello non abbia ancora elaborato il suo lutto. Nella ricerca di un colpevole, ecco che viene puntato il dito contro il presidente Joe Biden, reo di aver mentito sul suo stato di salute e di essersi, nell’aprile 2023, candidato alla rielezione, per poi – tardivamente – essersi ritirato nell’estate 2024 dopo il disastroso dibattito televisivo con Trump.
L’accusa, oltre ad essere ingiusta, è falsa. Erano anni che i riflessi di Biden stavano progressivamente rallentando e la cosa era sotto gli occhi di tutti. Correva il lontano 25 aprile 2019 quando Trump twittò: “Benvenuto alla corsa, Sleepy Joe”, sottolineando che il futuro 46° presidente “non sa dove si trova né cosa sta facendo: dorme”. Tra un balbettamento ed una caduta Biden, però, vinse le elezioni del 2020 e – bene o male – governò l’America, non peggio di altri, per quattro anni.
Se le menti che governano il partito, le grandi famiglie presidenziali (Clinton, Obama), ritenevano “Sleepy Joe” inadatto al governo potevano spingere per una differente strategia, in tempo utile, magari proponendo figure alternative alle primarie; invece nulla. La forza di Biden risiedeva, proprio, sulla sua debolezza e sulla sua impalpabilità: non un leader, ma una immagine tranquilla, moderata e rassicurante, dietro il quale nascondere le contraddizioni del Partito Democratico.
Da dove veniva Biden
Cresciuto nel mito di Kennedy e formatosi alla prestigiosa Syracuse University (JD nel 1968), Biden fu estraneo ai movimenti del pre-sessantotto americano in cui irruppero sulla scena politica tutte le “minoranze” o supposte tali: “neri, giovani, donne, gay, consumisti, ambientalisti anti-militaristi” (per dirla con Rampini). Egli era il figlio del sogno americano della Grand Society di Johnson, con la sua illusoria fiducia di infinito progresso e di continua crescita delle magnifiche progressive sorti della repubblica stellata.
Entrato giovanissimo in Senato, divenne una solida figura del partito, punto di riferimento per le strategie congressuali, senza mai emergere come vero leader. Il suo tentativo di concorrere alle primarie del 1988, su posizione moderatamente labour si concluse – quasi immediatamente – con un ritiro. Riprovò – da super veterano della politica – per le elezioni del 2008, ma il 4 gennaio, al termine del caucus dell’Iowa annunciò di volersi ritirare dalla competizione a causa dello scarso risultato ottenuto (0,93%).
Il ticket con Obama
Quando sembrava avviato sul vale del tramonto ecco che il 22 agosto il giovane (ed ancora sconosciuto ai più) Barack Obama, annunciò, durante un comizio elettorale a Springfield, che Biden sarebbe stato il suo compagno di cordata nella corsa per la presidenza. Come spesso capita il candidato alla presidenza sceglie per il ticket un personaggio che più lontano da lui non potrebbe essere (chi non ricorda il duo Kennedy-Johnson). Biden compensava quello che Obama non era: esperto dell’insidioso sottobosco washingtoniano, bianco di origine irlandese, quel tanto di opaco da non oscurare neppure per un secondo la narrazione obamiana.
Il suo moderatismo, funzionale a garantire l’elettorato americano del non radicalismo reale dell’astro nascente della Nuova America, lo portò otto anni a vivere al Number One Observatory Circle, senza mai dare l’idea che potesse essere qualcosa più di un vice, peraltro anziano.
Kamala, una predestinata
Il suo essere un rassicurante numero due lo portò fino alla Casa Bianca, ma subendo l’umiliazione di essere ritratto come “Person of the Year”, da Time nel 2020, non da solo – come era prassi – ma insieme a Kamala Harris, ufficialmente vice presidente, ma presidente de facto per molti osservatori, nonostante che alle primarie ella non avesse fatto una grande figura ed avesse attaccato Biden accusandolo (giugno 2019) non di essere razzista tout court, ma di essere razzista nell’animo perché non si era mai impegnato troppo nel processo di desegregazione. Ecco, quindi, l’eterno ed impalpabile “numero due” diventare il responsabile di una sconfitta che cade tutta sulle spalle della Harris.
Eppure da parte della candidata democratica, capace di perdere contro un pregiudicato con a carico una infinità di procedure legali (per dirla con i suoi supporter) non vi è stato un solo passo indietro, una ammissione di responsabilità in una sconfitta di storiche dimensioni. Speranza vana! Una ammissione di sconfitta avrebbe demolito in un sol colpo tutta la narrazione che sta dietro alla costruzione dell’immagine e del mito del vice presidente americano.
È necessario un passo indietro. Kamala Harris si è formata alla Howard University di Washington (denominata l’Harvard nera), università frequentata prevalentemente da afroamericani, che vanta rettori neri ininterrottamente dal 1926. La Facoltà di giurisprudenza di questo ateneo – precipitato all’86° posto del ranking delle università Usa, dopo che nel 2007 vennero mosse critiche, dall’interno, su “un’intollerabile situazione di incompetenza e disfunzione ai più alti livelli” – ha posto da decenni l’attivismo verso i diritti civili come un architrave del suo essere.
In questo brodo di coltura si è formata la vice presidente. Parimenti l’ateneo di specializzazione – University of California College of the Law di San Francisco – non ha una storia troppo diversa (82° posto tra le 196 scuole di legge in America). Si potrebbe dire che era una predestinata: padre giamaicano e madre indiana (famiglia di bramini tamil, la casta di livello più alto nella gerarchia sociale indiana), geneticamente depositaria di quella lettura woke che unisce tutte le minoranze e le élite universitarie e che ha portato il Partito Democratico a voltare le spalle alla classe lavoratrice. Non è un caso che l’AFL-CIO, il sindacato che dal 1955 radunava pressoché tutte le sigle di rappresentanza e che ancora adesso vede nel Partito Democratico il soggetto politico di riferimento, abbia subito nel 2005 che ne ha minato l’immagine, oltre che il suo potere di rappresentanza.
Con questo background era evidente che la Harris poteva ammettere la sconfitta, ma non gli errori di stratega e le direttrici di marcia. Non a caso nel concession speech pronunciato nel campus della sua alma mater washingtoniana la Harris non trapela alcuna autocritica, non c’è alcuna ammissione di responsabilità: “non rinuncio alla lotta che ha alimentato questa campagna: la lotta per la libertà, per le opportunità, per l’equità e la dignità di tutte le persone”.
Parole nobili che proseguono con l’elenco degli item della campagna: “Non rinuncerò mai alla lotta per un futuro in cui gli americani possano perseguire i loro sogni, ambizioni e aspirazioni. Dove le donne americane abbiano la libertà di prendere decisioni sul proprio corpo e non abbiano il loro governo che dice loro cosa fare. Non rinunceremo mai alla lotta per proteggere le nostre scuole e le nostre strade dalla violenza delle armi”. Neanche un accenno ai diritti sociali ed alla “classe” lavoratrice che si è avvicinata al Gop, come ha ben evidenziato su queste colonne Luca Bocci.
Dati impietosi con donne e minoranze
Eppure i dati sono impietosi, anche nell’ambito caro alla Harris: donne e minoranze. A Kamala Harris sono mancati voti da vari gruppi di elettorato tradizionalmente vicino al Partito Democratico, a partire dalle donne. I dati stimano che nel 2024 le elettrici che hanno scelto i Democratici sono state il 10% in più rispetto agli uomini, un dato inferiore rispetto alle ultime due precedenti tornate. Nel 2016 Clinton aveva convinto l’11% in più di donne mentre nel 2020 Biden ha fatto ancora meglio: +12%. Cioè le donne che hanno votato per il machista e molestatore Trump sono state il 44%.
Un arretramento è avvenuto anche sul versante del voto afroamericano. Il Pew Research calcola che in questo gruppo elettorale Harris prevale nettamente su Trump (85%) ma perde circa 6-7 punti rispetto ai precedenti di Clinton e Biden.
L’analisi del New York Times mostra un calo di consensi anche nell’elettorato ispanico, tradizionalmente meno “fedele” al Partito dell’Asinello rispetto agli afroamericani. Con il 52% di voti Harris ha battuto di misura Trump nel voto ispanico mentre nel 2016 Hillary Clinton era riuscita a calamitare il 66% dei consensi. La vicepresidente fa peggio anche rispetto a Biden (59%). Se si vede la mappa della Florida (un po’ un caso a sé) – in generale a maggioranza repubblicana – ecco che la contea di Miami, con alta percentuale ispanica, è divenuta rossa, mentre quella di Palm Beach, quella cara ai pensionati benestanti, è rimasta blu.
Futuro fosco
Il futuro democratico è fosco, finché abbandonerà le lotte tradizionali della sinistra e si affiderà al sostegno dello stars system, ritenuto estraneo alla maggior parte della popolazione e quindi “fasullo” nelle sue dichiarazioni. Illuminante sono le parole di commento di Bernie Sanders:
Non ci deve sorprendere che un Partito Democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra che la classe lavoratrice gli ha voltato le spalle alle urne […] lo stesso vale per l’elettorato nero e latino. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento.
Un uomo che si sinistra se ne intende, Fausto Bertinotti, da anni, ormai, critico verso le derive della sinistra ha legittimato politicamente la vittoria repubblicana con queste parole: “Trump ha vinto per due ragioni. La prima è la sua capacità di raccogliere meglio le istanze degli elettori e in generale intercettare meglio il voto popolare. La seconda è l’evidente colpa e incapacità dei progressisti di dare risposte”.
Ogni ulteriore spiegazione sarebbe inutile. L’élite democratica si è arroccata su piattaforme ideali che poco hanno a che fare con il paese reale. Certo che se si guarda l’America con gli occhi dei frequentatori degli ovattati salotti del National Press Club, fatti di raffinate boiserie, l’elettore trumpiano appare un alieno; se – al contrario – ci si concede una birra in uno sperduto locale del sud della Pennsylvania ecco che il mondo tutto viene letto sotto una differente prospettiva. L’elettorato si è espresso e la canzone “A country boy can survive” di Hank Williams descrive quell’America che anche parte del mainstream sta accettando.