“It’s Morning again in America”, diceva il celebre spot pubblicitario per la rielezione di Ronald Reagan nel 1984. Il messaggio contenuto in quel meraviglioso cortometraggio era quello di un’America sognante, ottimista e libera, capace di essere modello per il mondo, dopo i turbolenti anni del Vietnam e del Watergate.
A quasi 40 anni da quella campagna elettorale, quella visione liberale è in serio pericolo. Le sfide in seno al sistema economico e le pericolose derive culturali stanno consegnando al mondo l’immagine di un’America i cui principi fondanti vengono messi a dura prova. “The land of the free” è oggi ostaggio della forza centripeta che la sta dilaniando dall’interno.
Le fratture interne
Dal 2000 ad oggi è cambiato molto, inutile negarlo. La nascita di Internet, il 2001, la War on Terror, la crisi globale del 2008, le follie progressiste, il coronavirus. Quanto al tema delle divisioni, l’America di oggi vive una polarizzazione che nulla ha da invidiare rispetto a quelle che l’hanno preceduta.
Già nel 1968, all’alba dello scontro fra Richard Nixon e Hubert Humphrey, si parlava di due Americhe. Nel 2004, la scelta tra George W. Bush e John Kerry avveniva in un clima di “Dis-united States of America”. In 4 delle ultime 6 elezioni presidenziali è stato messo in discussione l’esito delle urne.
Nel 2000, 2004 e 2016 i Democratici contestarono la legittimità delle vittorie di George W. Bush e Donald Trump, mentre nell’ultima tornata elettorale abbiamo addirittura assistito ad un vero affronto istituzionale da parte dei trumpiani più estremisti. Il tutto ha impedito quel dignitoso passaggio di consegne che siamo spesso stati abituati a vedere.
A questo proposito, non si può non citare il 1993, con l’inizio della presidenza Clinton e la fine del mandato di George H. W. Bush. Il presidente uscente, sconfitto alle urne, scrisse una lettera accorata al vincitore, che ancora oggi rimane “a lesson in grace”, nella quale Bush scriveva a Clinton: “You will be our President […] Your success now is our country’s success. I’m rooting hard for you. Good luck”. Altre epoche, altri protagonisti, toni e stature decisamente diversi.
Le nuove sfide e la degenerazione
Per tornare ad un’epoca di generale ottimismo e convergenza, bisogna risalire alle amministrazioni di Ronald Reagan e Bill Clinton, le due più amate dal Dopoguerra ad oggi, con tassi di approvazione finale superiori al 60 per cento, come riporta l’American Presidency Project.
I decenni Ottanta e Novanta sono stati anni di crescita e fiducia, quando la presidenza riusciva a mettere d’accordo anche una parte di coloro che stavano al di fuori del proprio elettorato. Era l’epoca dei Reagan Democrats e del fruttuoso compromesso fra Clinton e i Repubblicani al Congresso, venuto meno quando si sono accesi i toni del Sexgate.
Ciò non significa che gli ultimi vent’anni non abbiano prodotto novità positive. I benefici dell’era globale e della rivoluzione digitale, teorizzata proprio alla fine del secolo, sono innegabili al netto di alcune correzioni. Tuttavia, ciò che si è insinuato nella realtà americana (e perciò occidentale) è una tendenza che non porta a pensare con ottimismo a ciò che saranno gli Stati Uniti del domani, soprattutto sul versante culturale.
Quali siano le cause della degenerazione degli ultimi tempi è difficile da stabilire. Forse il trauma dell’11 Settembre 2001, che ha ridisegnato i confini della dicotomia libertà-sicurezza, dove la seconda è diventata il pretesto per la riduzione della prima, come in era Covid.
E poi le guerre dell’era Bush-Obama, che hanno spinto al limite le possibilità dell’intervento americano, cadendo nell’utopia del nation building. Ma mai come la crisi economica del 2008 e l’isteria culturale progressista hanno segnato profondamente la nazione a stelle e strisce.
Il 2008 e le sue conseguenze
Una narrazione puramente politica della Grande Recessione ha creato il terreno fertile per regolamentare e pianificare oltremisura. Dopo i successi dell’economia libera di fine Novecento, ritorna poderosamente lo statalismo, al quale nemmeno i Repubblicani hanno saputo fare argine.
Bush 43, del resto, aveva speso più di chiunque altro presidente dall’epoca di Lyndon Johnson. Un’accurata analisi della crisi, portata avanti da intellettuali come Peter Wallison e Thomas Sowell, ha indicato nel crony capitalism la vera causa scatenante. La collusione fra alcuni operatori privati e le agenzie regolatrici del governo ha condotto all’espansione e alla conseguente esplosione di un meccanismo tossico che ha contagiato il sistema finanziario.
Tuttavia, la narrazione dominante ha prevalso e, sulla scia della vittoria di Obama e della maggioranza democratica al Congresso, la linea economica degli Stati Uniti si è decisamente sbilanciata a sinistra, per colpire un presunto eccesso di deregulation, laddove la responsabilità del caos era da imputare all’esatto contrario. Si è così completato quel riallineamento ideologico che ha ridisegnato le posizioni interne ai due partiti principali.
Gop lontano da Reagan
I Repubblicani si sono adagiati sulle accuse infondate nei confronti del libero mercato, cercando dapprima con Bush 43 di mostrare un volto immotivatamente compassionate arrivando addirittura, negli ultimi anni, a mettere in seria discussione l’eredità pro-market dell’era reaganiana.
Quando nel 1975 Ronald Reagan dichiarava che “The very heart and soul of Conservatism is Libertarianism”, non avrebbe certamente immaginato di vedere il suo partito in preda a derive culturali alquanto lontane dalla sua filosofia di pensiero. Una delle prime alternative all’impostazione reaganiana, mossa dall’interno, è apparsa con Pat Buchanan, il demagogo delle culture wars che il New York Times ha definito “The man who won the Republican Party before Trump did”.
Ma è appunto con Donald Trump, il quale ha avuto successo laddove McCain e Romney avevano fallito, che la base elettorale del GOP ha subito un importante cambiamento. Al free trade si preferisce il fair trade, non si disdegna il protezionismo, si è perso quel rispetto per le istituzioni così rilevante per la vecchia guardia repubblicana e ci si rifugia molte volte in spazi che dovrebbero invece restare lontani dalla realtà politica.
Fanatismo Dem
I Democratici sono vittime della stessa ideologia che hanno contribuito a diffondere nel corso degli ultimi decenni. Il fanatismo intellettuale dei campus universitari, delle redazioni giornalistiche e di Hollywood ha reso il partito schiavo dell’identity politics e della woke agenda, costringendo i centristi dell’establishment a cedere all’estremismo dei nuovi volti del partito, promotori di un progetto politico delirante dall’impostazione marxista.
Per non parlare dell’ulteriore virata a sinistra delle scelte economiche. Sono lontani i tempi in cui Bill Clinton diceva al Congresso “The era of Big Government is over” e promulgava “The end of Welfare as we know it”.
Obama e Biden hanno riportato il partito dell’asinello nel solco della tradizione statalista di Wilson, Roosevelt e Johnson. Questo perché lo stesso elettorato democratico ha assunto posizioni più liberal sull’economia, costringendo Hillary Clinton nel 2016 a compiere una virata poco credibile agli occhi dei veterani della sinistra come Bernie Sanders.
Quale futuro?
Se oggi l’America è così polarizzata, le follie dei progressisti hanno la responsabilità più grande: l’insofferenza nei confronti dell’avversario, la censura, l’intimidazione, l’intolleranza, le imposizioni ambientaliste. È l’epoca dei diritti collettivi (basati sulle categorie sessuali o etniche), che calpestano i veri diritti, quelli individuali, basati sulle abilità e sul merito.
Tutte follie a cui l’emisfero conservatore non è ancora riuscito a dare giusta risposta, ricorrendo ad espedienti e figure non all’altezza, talvolta capaci di aumentare ulteriormente la temperatura del dibattito pubblico. Di fronte alla prospettiva di una sfida non dissimile da quella già vista nel 2020, le speranze di ritrovare “The shining city upon a hill” appaiono ancora vane. La strada da percorrere è tutta in salita.