Esteri

Se questa è una resa: dazi in vigore e pressione su Pechino

Trump dimostra “flessibilità” di fronte all’allarme sui Treasury e allo spettro recessione. I principali alleati e partner commerciali asiatici in fila per un accordo. Follia Ue sulle auto elettriche cinesi

Trump cabinet (ABC)
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Il resoconto del Wall Street Journal è forse quello più completo ed equilibrato su come è maturata la decisione di Donald Trump di mettere in pausa i “super-dazi” reciproci per 90 giorni, il tempo per negoziare accordi bilaterali con i numerosi Paesi che si sono fatti vivi in questi giorni per trattare e non hanno reagito con ritorsioni ai dazi trumpiani.

Il nervo scoperto

“Flessibilità”, è la parola chiave usata pubblicamente dallo stesso Trump per spiegare la sua decisione. Quando vedi diritto davanti a te un muro, cerchi di aggirarlo o scavalcarlo, invece di sbatterci contro. E il muro che ha visto non è tanto quello di Wall Street, quanto il preoccupante trend dei bond del Tesoro Usa – per le cospicue vendite, dice qualcuno, del Giappone – e lo spettro di una recessione evocata dal ceo di JP Morgan, Jamie Dimon, a Fox News.

Impossibile credere che Trump e il suo team non avessero previsto la reazione negativa dei mercati. E infatti, come riporta il WSJ, il presidente era pronto a sopportare un certo livello di “pain”, ma quando il “dolore” ha toccato i nervi scoperti, i titoli di stato, ha premuto il pedale del freno.

Non proprio una resa

Una opzione di cui d’altra parte si stava già discutendo da giorni valutando le aperture di molti Paesi amici che chiedevano di trattare. Trump è stato in modalità ascolto e monitoraggio della situazione e ha deciso per la “flessibilità”, che però non va scambiata per una resa, una capitolazione, come è stato detto e scritto.

Anzi, per un certo verso, è incredibile come con questa doppia mossa Trump sia riuscito a indurre il mondo politico, i media e i mercati ad accogliere con un sospiro di sollievo, persino come una vittoria e una sua resa, (1) dazi generalizzati del 10 per cento su praticamente tutte le merci importate negli Usa; (2) dazi specifici del 25 per cento su auto, acciaio e alluminio, e su tutti i prodotti non USMCA (l’accordo di libero scambio con Messico e Canada); (3) dazi del 145 per cento e decoupling in corso con la Cina, il principale “colpevole” del deficit commerciale; e tutto questo (4) con i mercati che recuperano terreno e la spada di Damocle dei “super-dazi” che ancora incombe alla scadenza dei 90 giorni.

Ha inoltre decine di Paesi, tra cui i principali alleati e partner commerciali asiatici, in fila per un accordo. Paesi che si sono detti pronti a trovare una soluzione alle questioni sollevate dagli Usa e, soprattutto, che in questi giorni non si sono allineati alla Cina nella ritorsione, dimostrando da che parte stanno se costretti a scegliere.

Davvero tutto questo può essere chiamato una “resa”? No. Solo l’Ue, come avevamo osservato pochi giorni fa, era sul punto di seguire Pechino, ma il tempismo della frenata di Trump ha evitato il peggio e ieri Ursula Von der Leyen si è affrettata ad annunciare una sospensione di 90 giorni anche dei contro-dazi Ue.

Cambio di programma

Se guardiamo allo status quo ante, non ci pare poco in una manciata di settimane. L’unico dato negativo per Trump è aver rivelato il nervo scoperto, il punto debole – la tenuta dei bond Usa – che però era ampiamente prevedibile e che comunque non è attivabile alla leggera dagli stessi detentori dei titoli.

Chiaramente Trump avrebbe preferito avviare le trattative con i “super-dazi” in vigore piuttosto che sospesi, avrebbe avuto ancora più leva nei confronti delle controparti. Ha dovuto invece cambiare programma, anticipando il momento della trattativa.

Una frenata che non sembra al momento compromettere il piano di lungo termine e che aiuta a fare chiarezza a beneficio dei mercati e degli interlocutori.

Che il punto di caduta della manovra dei dazi fosse aprire trattative per accordi più favorevoli agli Usa da una posizione di forza era abbastanza chiaro fin dall’inizio, quando lo stesso Trump e il segretario al Tesoro avevano esortato a non reagire, ma una certa dose di ambiguità necessaria per rendere credibile la determinazione a imporre e mantenere dazi elevati (“stavolta facciamo sul serio”) ha creato confusione.

Trump si è detto aperto a “intese eque con tutti i Paesi”, inclusa l’Unione europea. E persino con Pechino, tornando ieri a ostentare ottimismo: “Sono sicuro che riusciremo ad andare molto d’accordo. Nutro grande rispetto per il presidente Xi. È un mio amico da molto tempo e riusciremo a trovare un accordo che sia positivo per entrambi i Paesi. Non vedo l’ora”.

Il tipico slancio negoziale del presidente Trump, ma come dimostra lo stallo sulla guerra in Ucraina, non è detto che Russia e Cina intendano trattare.

Un processo di lungo periodo

Nella fretta di proclamare vincitori e vinti, nella corsa a condannare Trump qualsiasi cosa faccia e dica – di più, non riconoscendogli nemmeno la dignità di avere un disegno – per puro virtue signalling, ci si dimentica che questa è una storia in sviluppo, un processo in divenire.

Non è detto che Trump riesca a riequilibrare la bilancia commerciale Usa e reindustrializzare l’America. Ci sono processi complessi che non avvengono dall’oggi al domani. Nuove filiere e linee produttive, che richiedono molto tempo e ingenti costi, mancanza di manodopera qualificata. Riportare le fabbriche in America non sarà una passeggiata, ne sono consapevoli a Washington. E comunque “il reshoring, per quanto necessario per la sicurezza nazionale, difficilmente potrà replicare l’occupazione industriale di massa del secolo scorso”, la produzione e il lavoro non sono più quelli degli anni 70-80, avverte oggi Antonio Zennaro.

La sfida è enorme e di lungo periodo. Ma nemmeno si può assistere a braccia conserte ai risultati di decenni di deindustrializzazione. Da qualcosa bisogna pur iniziare. Trump ha iniziato rovesciando il tavolo.

Non aiuta la comprensione abbandonarsi a rappresentazioni macchiettistiche. Tra un’America autarchica e una totale desertificazione industriale, tra una politica mercantilista e un deficit da mille miliardi, esistono delle vie di mezzo. Non è la produzione di t-shirt che manca agli Stati Uniti, su cui molti in questi giorni stanno ironizzando, seguendo guarda caso la propaganda cinese.

Ma non c’è dubbio che il deficit commerciale e la deindustrializzazione si sono spinti troppo oltre, su questo esiste un consenso ampio in America, anche di una parte importante del mondo economico e finanziario e del Partito Democratico. Siamo arrivati all’osso. Per citare solo due esempi, preoccupa l’eccessiva dipendenza dall’estero, in particolare dalla Cina, per la produzione di farmaci e di componenti ad alta tecnologia, che mette a rischio persino capacità nel settore della difesa.

L’Europa

È qualcosa che dovremmo aver presente anche noi europei, essendo sia carnefici che vittime di questa globalizzazione “alla cinese”, come ho sottolineato nel mio precedente articolo. Anche noi, come gli Usa, avremmo di che lamentarci per come ci hanno trattati i cinesi, per il loro approccio predatorio e le numerose promesse di apertura infrante, e agire di conseguenza, invece ora lasciamo che ci invadano persino le loro macchine elettriche.

Di ieri la notizia, riportata dal quotidiano tedesco Handelsblatt, che la Commissione europea avrebbe avviato colloqui con Pechino per la rimozione dei dazi sulle auto elettriche cinesi introdotti solo pochi mesi fa. Puro autolesionismo, per dimostrare cosa?