“La Nato è in stato di morte cerebrale”, diceva Emmanuel Macron prima della guerra in Ucraina. Ammesso e non concesso che quel referto medico fosse sensato, ci ha pensato il Gerovladimirital – l’efficace trattamento messo a punto dal dottor Putin – a rivitalizzare l’Alleanza Atlantica.
È un Macron completamente diverso da quello che si sedeva al lungo tavolo color ghiaccio del Cremlino quello che ora invoca una forma decisa di “deterrenza” militare contro le mire espansioniste russe. Ma c’è un problema: la deterrenza si fa soltanto con strumenti adeguati. “Si vis pacem para bellum” e forse l’Europa avrebbe dovuto prepararsi ben prima del 24 febbraio 2022.
La Russia è uno Stato militarista: lo è “strutturalmente” per utilizzare una espressione cara a Carl Marx. Pur avendo un Pil inferiore a quello dell’Italia, essa investe buona parte delle sue ricchezze, frutto della rendita energetica, per tenere in piedi un esercito esorbitante, sulla carta il secondo esercito più potente del mondo, che però alla prova del campo si è rivelato poco efficace.
Ma se a est abbiamo una immensa fabbrica di armi a cielo aperto l’Europa in che condizioni è? Lo abbiamo chiesto ad uno dei più acuti analisti militari che in Italia ha studiato il conflitto in corso in Ucraina: Luigi Chiapperini, generale di corpo d’armata in congedo, già comandante del contingente multinazionale Nato in Afghanistan.
Due modelli di industria militare
Due modelli di industria militare si stanno confrontando indirettamente nel conflitto in Ucraina, ci spiega Chiapperini: “nel settore della difesa degli Stati Uniti operano non meno di venti grandi aziende che sono tutte società per azioni e quindi private oltre a moltissime startup più piccole. La medesima cosa avviene in Europa, anche se le aziende a partecipazione statale sono più diffuse. In Russia invece la quasi totalità delle aziende della difesa è pubblica, quindi in mano statale, con linee di produzione mai chiuse o prontamente riattivabili. Questa differenza presuppone pro e contro.
Il mercato libero (essenzialmente grazie alla concorrenza e alla disponibilità di investimenti privati nella ricerca e sviluppo) ha i suoi vantaggi assicurando sistemi d’arma sicuramente all’avanguardia, ma in tempo di pace affidarsi solo all’industria privata può essere controproducente in quanto, operando questa sulla base dell’economia di mercato, potrebbe non soddisfare prontamente le esigenze dello strumento militare.
Attualmente in Occidente si sta correndo ai ripari in quanto sono pochi gli stabilimenti in grado di produrre in grandi quantità equipaggiamenti militari. Per questo oggi la Russia è avvantaggiata. Tuttavia Mosca deve fare i conti con un Pil inferiore a quello italiano e con la necessità di dover dedicare ben il 25 per cento della spesa pubblica alla difesa. Una situazione non sostenibile nel lungo periodo”.
Se si legge il dato militare-industriale la situazione è quindi inversa rispetto a quella che prospettano i propagandisti pro-Cremlino: il tempo lavora a sfavore della Russia… da qui la pressante esigenza di chiudere la partita per evitare che il conflitto diventi logorante per il fragile edificio economico russo.
Due stimoli
Tuttavia questa prospettiva implica che gli europei smettano di sentirsi “figli di Venere”, secondo la ironica definizione di Kagan, e ritornino a considerare la difesa un punto importante dell’agenda.
Si potrebbe verificare tra qualche mese la convergenza di due “stimoli”: da un lato la pressione militare esercitata a est da Putin, dall’altro la richiesta brusca, ma tutto sommato razionale, di Donald Trump di redistribuire in maniera più equa le spese della Nato. Se si considerano le particelle di contributi alla difesa atlantica e i vantaggi di cui l’Europa occidentale ha goduto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nello stare sotto l’ombrello della Nato si può dar torto, in questo specifico passaggio, all’irruento Trump?
Cambio di paradigma
Già adesso la borsa fiuta i tempi nuovi. Nell’arco di un anno il titolo di Leonardo è volato in alto, più in generale l’indice dei titoli azionari riguardanti la difesa ha segnato un aumento del 52 per cento.
Su Milano Finanza Francesco Sciaudone parla di un cambio di paradigma dell’Unione europea: dal Green Deal al War Deal. “Dopo aver assistito negli ultimi anni alla intensa corsa regolatoria e finanziaria intrapresa dalla fine 2019 verso l’ambita neutralità climatica dell’Unione europea incarnata nel cosiddetto Green Deal ci dobbiamo attrezzare per il War Deal. Soppianterà il primo? Si affiancherà ad esso? Con che risorse?”
I pacifisti, sempre così tolleranti verso le guerre dichiarate dagli altri fino ad imporre la resa alle vittime, grideranno allo scandalo per questa conversione e d’altra parte “War Deal” è una espressione esagerata: l’economia delle principali nazioni capitalistiche non ha bisogno di fare della industria militare il suo volano.
È evidente che non si tratta di inseguire il militarismo russo sul suo terreno. La Russia investe un quarto del suo bilancio nella economia di guerra; per i Paesi europei si tratterebbe di aumentare di un punto/un punto e mezzo di Pil la spesa per l’ammodernamento militare e la cybersicurezza…