Starmer non è Blair: cosa dobbiamo aspettarci dal suo Labour

Molte le differenze con i passati successi laburisti, auspicabile una stagione più vicina al New Labour che ad una sinistra schiava di totem ambientalisti e neomarxisti

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“Il Regno Unito è un Paese conservatore che a volte decide di votare laburista”. Così diceva il deputato Tory Reginald Maulding nel 1970 e i risultati di queste elezioni gli danno ragione. Dopo 14 anni di governi conservatori (Cameron, May, Johnson, Truss, Sunak), i britannici tornano a votare per il Labour Party. Nessuna sorpresa dunque per il nuovo primo ministro, Sir Keir Starmer, leader del partito dal 2020 e dal background non elitario. Cosa, questa, che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher.

Dopo essere (forse) riuscito a isolare la sinistra di Jeremy Corbyn, Starmer si appresta a guidare la nazione senza alcuna intenzione di tornare nell’Unione europea, con un programma definito “down to Earth”, ma comunque destinato ad aumentare la presenza dello stato nell’economia britannica. D’altro canto, il Regno Unito non esce da un’era di liberismo thatcheriano, con un partito conservatore più “One Nation”, privo di credibilità e in grande difficoltà.

I quattro grandi momenti laburisti

La vittoria di Starmer si inserisce nel solco dei successi elettorali di coloro che lo hanno preceduto a Downing Street. Questo rappresenta il quarto grande momento laburista dal Dopoguerra ad oggi, ma ha tratti nettamente diversi rispetto a quelli del passato.

Clement Attlee vinse nel 1945 sconfiggendo Winston Churchill, e ridisegnò la società britannica in funzione statalista, creando il welfare state e il National Health Service. Nel 1964 Harold Wilson ha presieduto la Swinging London della rivoluzione sessuale e della cosiddetta New Morality dei movimenti giovanili.

La più grande vittoria resta dunque quella di Tony Blair nel 1997. Dopo 18 anni di predominio conservatore targato Thatcher-Major, Blair trasforma il suo partito in chiave centrista e moderna, eliminando i residui del socialismo e riconoscendo le determinanti conquiste del thatcherismo, specie la fine del predominio sindacale e le privatizzazioni. Cercare di conciliare i risultati dell’economia di mercato con una maggior equità sociale era la missione proclamata dal “New Labour”. E così andò avanti sino al 2010, quando Gordon Brown perse e i Tories ripresero il comando.

Starmer non è Blair

Oggi, Starmer fa certamente eco a Blair e al 1997, ottenendo più di 400 seggi alla House of Commons. Non scavalca quel primato, ma la sua landslide è ugualmente storica. Il riposizionamento da lui compiuto nello sradicare l’impronta di Corbyn non ha i tratti rivoluzionari di Blair, che ha cancellato la famigerata Clause 4, che legittimava con fermezza le nazionalizzazioni.

Blair era l’espressione di un ottimismo “aspirational” destinato a cambiare realmente i connotati della vecchia sinistra. Quella dei primi anni Duemila è la Cool Britannia, influente e in continua crescita. Sul trono sedeva l’indimenticata regina Elisabetta II, uscita dai turbolenti anni Novanta dei divorzi reali e del ciclone Diana, scomparsa proprio pochi mesi dopo la prima landslide di Blair. 

Oggi per strada non si canta più “Things can only get better”. Pur avendo un’economia in ripresa, Starmer non ha infatti la rivoluzione della Thatcher a precederlo e se ora si trova a Downing Street non è certo per grandi qualità di leadership o per coerenza programmatica. Una sana e doverosa alternanza di governo, unita agli errori e alle incapacità degli ultimi governi conservatori hanno riportato il Labour al potere, con una maggioranza capace di riformare il Paese a sua immagine e somiglianza.

Se le differenze con il passato sono tante, è del tutto auspicabile una stagione politica più vicina a quella del New Labour, piuttosto che a quella di una sinistra radicale, schiava di totem ambientalisti e neomarxisti.

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