A partire dal 2006, il mondo ha visto un costante declino democratico evidenziato dall’organizzazione Freedom House. Tale fenomeno si è concretizzato attraverso la progressiva autocratizzazione di diverse nazioni a causa del venir meno del sistema interno di separazione dei poteri, o dell’insorgere di conflitti interni e colpi di stato.
La Thailandia ha rappresentato uno dei massimi esempi di tale processo, a seguito dell’instaurazione di una dittatura militare come conseguenza del golpe del 2014. Tale golpe aveva rappresentato il culmine di una lunghissima faida sociale tra le due anime del Paese, ormai in corso da oltre un decennio.
La giunta militare non è tuttavia riuscita a schiacciare il desiderio di libertà della popolazione, che in occasione delle ultime consultazioni ha chiaramente manifestato la propria volontà di ritornare ad un sistema democratico.
Le radici della faida sociale
Le forze armate hanno tradizionalmente svolto un ruolo politico estremamente rilevante in Thailandia, nazione che ha visto un totale di circa 20 colpi di stato tra il 1912 e il 2014. A partire dal 2001 il Paese è stato squassato da una costante faida politica tra il nord povero e rurale, rappresentato dalla famiglia Shinawatra e il sud, l’area più ricca tendenzialmente favorevole alla monarchia.
Nel 1994 il potente imprenditore ed ex poliziotto Thaksin Shinawatra venne eletto al Parlamento come membro del Palang Dharma Party, venendo successivamente nominato ministro degli esteri, per poi assumere la guida del partito nel 1995. Dopo un breve mandato come vicepremier, il collasso del Phalang Dharma in occasione delle elezioni del 1996 spinse Thaksin a fondare un nuovo partito, il Thai Rak Thai.
La nuova formazione impostò un programma politico populista basato sulla copertura sanitaria universale, una moratoria sul debito per gli agricoltori e un milione di bath la cui gestione veniva delegata alle comunità locali, al fine di garantire lo sviluppo economico dei piccoli villaggi.
Il programma di Thaksin era basato sull’esigenza di attirare l’elettorato del nord del Paese, tradizionalmente emarginato dalle élite meridionali. Le elezioni del 2001 videro una schiacciante vittoria di Thaksin, trainata dalle aree settentrionali, e i successivi quattro anni di governo del Thai Rak Thai furono caratterizzati da un costante calo della corruzione, da una riduzione del debito pubblico e da un costante miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.
Tuttavia, Thaksin venne accusato di autoritarismo, in virtù della spietata guerra alla droga condotta dalle autorità thailandesi e della campagna repressiva contro gli insorti musulmani nella parte meridionale del Paese. Il governo Shinawatra venne altresì accusato di corruzione e usurpazione delle prerogative attribuite al monarca. Al contempo le élite meridionali e le forze armate divennero sempre più insofferenti verso un governo decisamente lontano dai loro interessi.
Nel 2005, tali componenti della società thailandese formarono l’Alleanza Popolare per la Democrazia, le cosiddette “camicie gialle”. La vittoria di Thaksin in occasione delle elezioni del 2005 non riuscì a sopire una crisi politica ormai impossibile da fermare, concretizzatasi in imponenti proteste popolari.
Di fronte alle crescenti proteste Thaksin ordinò la dissoluzione del Parlamento e la convocazione di nuove elezioni. Tuttavia, il boicottaggio delle forze d’opposizione spinse la Corte costituzionale ad invalidarle. Il governo convocò quindi nuove elezioni previste per il mese di ottobre 2006, ma i militari approfittando del caos istituzionale presero il potere con un colpo di stato, estromettendo Thaksin.
Il colpo di stato provocò la reazione dei sostenitori del premier esautorato, i quali formarono il Fronte Unito per la Democrazia Contro la Dittatura, meglio note come “camicie rosse”, in opposizione alle camicie gialle. Il golpe portò alla fine della carriera politica di Thaksin Shinawatra che tuttavia ha continuato ad esercitare una forte influenza sulla politica thailandese tramite i suoi sostenitori, che diedero vita al People’s Power Party.
Ebbe così inizio la lunga faida tra i sostenitori di Thaksin e le élite monarchiche del Paese. La vittoria dei sostenitori dell’ex primo ministro nelle consultazioni del 2007 sancì l’avvio di un’ulteriore crisi politica culminata con la dissoluzione del People’s Power Party decisa dalla Corte costituzionale. I sostenitori degli Shinawatra si riorganizzarono quindi nel Pheu Thai Party, guidato dalla sorella di Thaksin, Yingluck, la quale riportò una larga vittoria in occasione delle elezioni del 2011.
Il colpo di stato e la dittatura
Il mandato di Yingluck è stato sotto certi aspetti molto simile a quello di Thaksin, caratterizzato da un’elevata popolarità del governo nelle aree rurali a cui ha fatto da contraltare una fortissima ostilità tra i ceti più abbienti e fedeli alla monarchia.
Verso la fine del 2013 le imponenti proteste contro il governo di Yingluck hanno determinato l’insorgere di una nuova crisi politica, di cui hanno ancora una volta approfittato le forze armate. I militari guidati dal generale Prayuth Chan-o-cha hanno condotto un ennesimo colpo di stato, defenestrando Yingluck Shinawatra e instaurando un nuovo regime autoritario.
La giunta militare denominata “Consiglio Nazionale per la Pace e l’Ordine” ha immediatamente approvato una Costituzione ad interim che ha consentito la nomina di un nuovo Parlamento fedele alle forze armate, il quale ha immediatamente nominato Prayuth primo ministro.
Il nuovo governo ha condotto una dura repressione contro gli oppositori del golpe e avviato il processo per la stesura di una nuova Costituzione favorevole ai militari. La nuova Carta costituzionale è stata sin da subito caratterizzata dalla presenza di una Camera alta (Senato), composta da 250 membri interamente nominata dai militari avente un mandato di cinque anni, un anno in più rispetto alla Camera bassa. La nuova Costituzione venne infine approvata nel 2016 tramite un referendum caratterizzato da pesanti restrizioni al dibattito politico e numerose intimidazioni.
Tuttavia, ciò che ha contraddistinto il periodo della Giunta militare al governo è stata la costante resistenza della popolazione, decisa a non accettare l’ennesimo regime autoritario. La resilienza del popolo thailandese si è espressa nella formazione del partito Future Forward Party.
Tale formazione politica si è infatti presentata come un’alternativa tanto alla giunta militare, quanto ai partiti tradizionali, attirando in particolar modo l’elettorato più giovane. Le elezioni del 2019 hanno visto un successo dei partiti ostili alla dittatura, i quali sono riusciti a formare un governo solo grazie alla presenza di diversi piccoli partiti pro-giunta, i quali hanno beneficiato di “interpretazioni tecniche” della Commissione elettorale dominata dai militari.
La fragilità del controllo della Giunta sul Paese è emersa dalla fortissima reazione popolare alla dissoluzione anche del Future Forward Party decisa dalla Corte costituzionale nel 2020. La decisione del principale organo giudiziario del Paese ha infatti scatenato pesanti proteste popolari, a seguito delle quali il governo ha dichiarato lo stato di emergenza.
La strada verso la libertà
Diversamente dalla Giunta militare, i partiti d’opposizione sono riusciti ad intercettare perfettamente la volontà di riforme da parte della popolazione candidando personaggi giovani e di successo, i quali incarnano perfettamente le aspirazioni popolari.
Il giovanissimo Pita Limjaroenrat, ricco imprenditore e primo studente thailandese a vincere una borsa di studio alla Harvard University, ha raccolto i resti del Future Forward Party fondando il partito Move Forward.
Contestualmente il partito Pheu Thai ancora dominato dai fedeli di Shinawatra ha nominato come candidato premier la giovanissima Paenthongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin Shinawatra. Le elezioni per il Consiglio Metropolitano di Bangkok e per il posto di governatore della capitale tenutesi nel maggio 2022 avevano visto una nettissima vittoria dei partiti d’opposizione, in una città precedentemente favorevole a livello elettorale alle forze fedeli alla Giunta.
Tale consultazione ha rappresentato un’anticipazione di quanto avvenuto alle recenti elezioni parlamentari, le quali hanno visto una schiacciante vittoria dei due partiti contrari al regime. In particolare il partito Move Forward di Pita ha ottenuto il maggior numero di seggi.
Le prospettive di riforma
A seguito del forte successo elettorale, Pita ha già dichiarato la propria volontà di formare una coalizione di sei partiti politici d’opposizione, i quali avranno un totale di 309 seggi alla Camera bassa. Il giovane politico ha chiaramente asserito la necessità di riformare il rapporto tra la monarchia e il popolo, indicando chiaramente la propria volontà di riformare drasticamente il Paese.
Se da un lato il fronte democratico pare compatto e deciso a perseguire i propri obbiettivi, esso necessita comunque di 67 seggi del Senato per poter formare un governo. Pita si è detto certo che la Camera alta rispetterà la volontà popolare, ma il processo di formazione del governo (e del suo programma) potrebbe essere lungo e complesso.
Allo stato attuale, in virtù della devastante impopolarità del precedente regime, è improbabile (ma non del tutto escludibile), un nuovo colpo di stato da parte dei militari, i quali però certamente resteranno una delle forze politicamente più influenti del Paese e sfrutteranno al massimo il rimanente anno di mandato del Senato.
Il nuovo governo avrà l’arduo compito di riformare il Paese dovendo però fare i conti con la forte influenza delle forze armate. Ciononostante, la nuova coalizione democratica ha tutte le carte in regola (e l’appoggio popolare) per avviare un graduale processo di riforme che trasformi la Thailandia in una democrazia stabile, su modello di altre nazioni dell’area Indo Pacifica, quali Taiwan e Corea del Sud.
Il futuro appare ancora incerto, ma, almeno per il momento, possiamo descrivere la situazione politica della Thailandia utilizzando la citazione di un capolavoro cinematografico: “la speranza, divampa!”, quella stessa speranza che potrebbe segnare la fine del processo di declino democratico nel mondo, ormai in corso da troppi anni.