Esteri

Trump incriminato da Biden: precedente pericoloso e doppio standard

Mai il potere giudiziario federale era stato usato contro l’avversario politico del presidente in carica. Seconda incriminazione per i documenti classificati di Mar-a-Lago

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Donald Trump arrestato in Florida. A suo carico ben 37 capi d’imputazione relativi al caso dei documenti classificati ritrovati nella sua residenza di Mar-a-Lago. L’ex presidente, comparso ieri davanti al giudice federale, si è dichiarato non colpevole di tutti i capi d’accusa ed è stato rilasciato senza condizioni restrittive, tranne quella di non poter avere contatti con i testimoni.

Una incriminazione totalmente diversa da quella ricevuta a Manhattan per la presunta falsificazione di documenti aziendali relativi ai pagamenti nascosti per comprare il silenzio della pornostar Stormy Daniels.

La firma di Biden

Se infatti anche la motivazione del procuratore sorosiano di Manhattan Alvin Bragg è politica, la differenza sostanziale è che questa volta a muoversi non è un procuratore distrettuale, ma direttamente il governo federale, ovvero l’amministrazione Biden, attraverso un procuratore speciale nominato ad hoc dal Dipartimento di Giustizia.

Il procuratore speciale Jack Smith aveva annunciato l’incriminazione venerdì scorso, ma la decisione ultima è sempre dell’Attorney General, Merrick Garland, che ha l’autorità per bloccarla. Lo stesso Garland a cui ancora brucia la nomina a giudice della Corte Suprema bloccata dal Senato Repubblicano poco prima delle presidenziali del 2016.

Si tratta quindi di una incriminazione su cui gran parte degli americani vedranno la doppia firma “Garland-Biden”. Durante una conferenza stampa, il 9 novembre scorso, ad una domanda sul rischio di un ritorno al potere di Trump, Biden rispose “dobbiamo solo dimostrare che non prenderà il potere se si candida. Mi assicurerò che, secondo gli sforzi legittimi della nostra Costituzione, non diventi di nuovo il prossimo presidente”.

Incriminazione distruttiva

Un uso politico della giustizia che ben conosciamo in Italia – e che ha conosciuto molto bene Silvio Berlusconi, i cui funerali si celebrano proprio oggi – ma senza precedenti negli Stati Uniti. Mai infatti il potere giudiziario del governo federale era stato usato contro un ex presidente, al momento il più probabile sfidante del presidente in carica alle presidenziali che si terranno tra poco più di un anno.

“Un’accusa distruttiva contro Trump”, il titolo di un editoriale di sabato scorso del Wall Street Journal, certo non un giornale “trumpiano”, in cui si osserva come la gente abbia ragione a considerarla una caccia alle streghe, una persecuzione politica, e ci si chiede se i procuratori siano “consapevoli delle forze che stanno scatenando“.

I capi d’accusa

Dei 37 capi d’accusa, 31 contestano la violazione del vecchio e raramente applicato Espionage Act sulla “conservazione intenzionale di informazioni sulla difesa nazionale”. Praticamente, Trump accusato di spionaggio, come Juliane Assange.

Significativo, come nota il Wall Street Journal, che l’accusa ignori del tutto il Presidential Records Act, la legge che consente ad un ex presidente di accedere comunque ai documenti della sua amministrazione, classificati e non, una volta lasciato l’incarico. Certo, tale legge consente di negoziare in buona fede con l’Archivio Nazionale. Ma non viene contestato a Trump di non aver negoziato in buona fede, bensì di non avere il diritto di conservare alcun documento classificato.

Singolare, perché il Presidential Records Act è stato scritto dal Congresso proprio per riconoscere agli ex presidenti tale diritto. Ma se l’Espionage Act viene applicato anche ad essi, secondo l’interpretazione che non possono conservare alcun tipo di documento classificato, allora il Presidential Records Act è come se non esistesse.

E si capisce perché. Contestare la violazione dell’Espionage Act consente all’accusa di non basare il caso interamente sulle false dichiarazioni, o sulla legge che proibisce la rimozione e conservazione non autorizzate di informazioni classificate, che avrebbe aperto un dibattito sull’autorità di declassificazione che il procuratore Smith vuole chiaramente evitare, avendo Trump tale autorità.

Mancata consegna di documenti in un’indagine federale, false dichiarazioni e ostacolo alla giustizia sono gli altri capi d’accusa, sui quali il procuratore è in possesso di alcune intercettazioni.

Doppio standard

Ma oltre alle perplessità di ordine giuridico, c’è un aspetto ancora più eclatante da considerare ed è il colossale doppio standard politico.

Abbiamo già parlato su Atlantico Quotidiano dei documenti riservati ritrovati nelle sedi del presidente Joe Biden, addirittura nel garage della sua casa nel Delaware, accanto alla sua Corvette. Quando la notizia è venuta fuori, Biden si è giustificato in modo patetico: “La mia Corvette è in un garage chiuso a chiave, ok? Quindi non è che siano per strada”.

L’Attorney General ha nominato un altro procuratore speciale, Robert Hur, per indagare, ma non c’è alcun segnale che faccia pensare ad una possibile incriminazione di Biden. Per di più, Biden non sarebbe nemmeno coperto dal Presidential Records Act, visto che quei documenti risalgono a quando era vicepresidente e non aveva in ogni caso l’autorità per declassificarli.

E l’Emailgate?

Così come non l’aveva Hillary Clinton, che da segretario di Stato ha usato un server di posta elettronica privato per far transitare e conservare informazioni riservate – il famoso Emailgate. Ben 113 e-mail che contenevano informazioni classificate al momento dell’invio o della ricezione, 8 top secret, altre 2 mila successivamente declassate a “confidenziale”. Ebbene, la Clinton se la cavò con un rimbrotto.

L’allora direttore dell’FBI James Comey dichiarò nel 2016 che lei e i suoi colleghi “sono stati estremamente negligenti nella gestione di informazioni molto sensibili ed altamente riservate”. Nessuna incriminazione per lei, concluse, poiché “nessun procuratore ragionevole avrebbe intentato una causa del genere”.

L’affaire Biden-Burisma

Ma quanto sta emergendo dalle indagini della Commissione di vigilanza della Camera sulla famiglia Biden getta una luce ancora più inquietante sulla politicizzazione della giustizia in America. Un caso di cui abbiamo già parlato su Atlantico Quotidiano. In breve, dal 2017 l’FBI è in possesso di un rapporto di un informatore “altamente credibile” in cui si descrive uno schema di corruzione che avrebbe coinvolto Joe Biden quando era vicepresidente e un cittadino straniero.

Nel documento – che l’FBI ha permesso ai membri della Commissione di visionare, ma non di acquisirne una copia, nonostante non sia classificato – si parla di una tangente da 5 milioni di dollari che Biden avrebbe ricevuto da un uomo d’affari ucraino in cambio della sua influenza politica.

Inoltre, ha rivelato lunedì scorso il senatore Chuck Grassley, tale cittadino ucraino sarebbe in possesso di 2 registrazioni audio di conversazioni con l’allora vicepresidente Biden e di ben 15 con il figlio Hunter.

Secondo i senatori che hanno potuto visionare il documento, lo schema di corruzione coinvolgerebbe una importante società energetica ucraina, Burisma, nel cui board il figlio del presidente, Hunter Biden, aveva ottenuto un redditizio posto nel 2014, mentre il padre era vicepresidente.

L’FBI quindi ha dal 2017, cioè dall’inizio della presidenza Trump, informazioni su una presunta corruzione di Biden da parte di Burisma, ma non le ha verificate né smentite, e le ha nascoste quando Trump è stato messo sotto impeachment nel 2019 per aver chiesto al presidente ucraino Zelensky informazioni esattamente su questo caso.

Il piano dei Democratici

Questo il contesto in cui si inserisce questa seconda incriminazione a carico di Trump. Anche nel suo caso, e a maggior ragione essendo coperto dal Presidential Records Act, il procuratore speciale avrebbe potuto concludere la sua indagine illustrando al pubblico l’imprudenza e la negligenza di Trump e censurandone la condotta. Invece, osserva il WSJ, “il Dipartimento di Giustizia ha intrapreso una strada pericolosa“, “un intervento distruttivo nelle elezioni del 2024″.

Forse, ostacolare un’alternativa a Trump nel Gop e trasformare le elezioni in un referendum su The Donald, piuttosto che sull’economia e sui risultati di Biden, è esattamente l’obiettivo dei Democratici.

Secondo alcuni sondaggisti, tra cui Richard Baris, direttore di Big Data Polls, la seconda incriminazione non ha deteriorato la base di elettori di Trump, ma ha invece rafforzato i suoi numeri in vista delle primarie e la maggioranza degli elettori repubblicani la vedono come una persecuzione politica.

Dopo l’udienza in tribunale e il rilascio in attesa del processo, Trump si è fermato in un ristorante di Little Havana, Versailles, ha ordinato da mangiare per tutti e gli avventori hanno intonato Happy Birthday, essendo domani (oggi, ndr) il suo compleanno, mentre all’esterno si accalcavano i suoi sostenitori.

Crediamo che con queste azioni giudiziarie i Democratici abbiano già avviato il loro piano per influenzare e rubare le elezioni. Le incriminazioni e i processi avranno l’effetto di aiutare Trump a vincere le primarie ma rischiano di azzopparlo nella corsa alla Casa Bianca, o addirittura, nel caso peggiore, i Repubblicani si ritroveranno senza candidato dopo averlo scelto. Una interferenza macroscopica nel processo elettorale.

“Una volta in America era impensabile che l’imponente potere giudiziario del governo fosse rivolto contro un avversario politico”, conclude il board del WSJ. “Quel sigillo ora è stato rotto. Non era necessario. (…) La più grande ironia dell’era di Trump è che nonostante tutte le sue violazioni delle norme democratiche, i suoi frenetici oppositori hanno fatto e stanno facendo loro stessi notevoli danni alla democrazia“.

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