Si rammenterà che, negli anni della sua presidenza, Donald Trump insisteva molto sulla necessità di realizzare il decoupling (cioè il distacco) tra l’economia Usa e quella cinese. Il presidente, a differenza dei suoi predecessori, aveva infatti capito con molta lucidità che i due sistemi economici e produttivi erano diventati troppo interconnessi, anche grazie a una folle politica di delocalizzazioni che aveva condotto molte aziende americane (e occidentali in genere) a spostare nella Repubblica Popolare le loro attività.
C’erano ovviamente solidi motivi che giustificavano una simile strategia. Il costo del lavoro in Cina è assai più basso e Pechino offriva allettanti incentivi agli imprenditori che decidevano di investire nel suo territorio. Inoltre, essendo una rigida autocrazia comunista, la Repubblica Popolare consente solo la presenza di sindacati legati al Partito, e perciò facilmente controllabili. Niente scioperi, insomma, e questo fatto rendeva ancora più attraente per gli occidentali il trasferimento delle attività produttive sul suolo cinese.
Una globalizzazione “con gli occhi a mandorla”
Trump aveva però constatato che c’era il rovescio della medaglia. Grazie alle delocalizzazioni molte aree degli Stati Uniti, un tempo floride economicamente, erano diventate dei veri e propri deserti, formando quella che si definisce Rust Belt (Cintura di ruggine). Interi Stati dell’Unione si erano quindi deindustrializzati, originando fenomeni di disoccupazione e disagio sociale.
Questo fu uno dei motivi principali del successo elettorale di Trump e della diffusione del suo slogan Make America Great Again. I Democratici, ma anche gran parte del Partito Repubblicano, non avevano prestato molta attenzione al fenomeno. Essendo globalisti convinti, non ascoltavano le proteste dei cittadini comuni ritenendo che si dovesse pagare un prezzo per realizzare la mondializzazione dell’economia.
Naturalmente i cinesi, da sempre maestri nelle questioni commerciali, approfittarono della situazione dando vita a una globalizzazione “con gli occhi a mandorla” e conquistando sempre nuovi mercati. Una globalizzazione che in apparenza sembrava americana divenne insomma cinese, creando problemi enormi non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa (Italia inclusa). Solo che il processo era ormai così avanzato che risultava difficile fermarlo. Trump fece largo uso delle sanzioni, ma i risultati furono meno favorevoli del previsto.
I lockdown totali in Cina stanno accelerando il decoupling
Ora la Repubblica Popolare sta provvedendo per conto suo a realizzare il suddetto decoupling. Lo spunto è stato fornito dalla pandemia di Covid-19, virus che in Cina non è affatto stato sconfitto come il Partito comunista voleva far credere al mondo. Al contrario, in presenza di sempre nuovi focolai Xi Jinping e il suo gruppo dirigente hanno deciso di insistere sulla loro folle strategia “Covid zero”, ricorrendo in modo ossessivo a lockdown totali che hanno bloccato intere metropoli. Il caso più recente è quello di Shanghai, cuore economico e finanziario del Paese. Ora tocca alla capitale Pechino, con milioni di persone bloccate in casa o, se infette, rinchiuse in centri di accoglienza che sono in realtà delle prigioni.
Le conseguenze economiche non hanno tardato a farsi sentire. I porti più importanti fermi per paura che il virus si diffonda. Vaccini di produzione cinese inefficaci e rifiuto di ricorrere a quelli occidentali. Produzione industriale calata del 3 per cento e vendite al dettaglio scese addirittura dell’11 per cento. Il Partito-Stato ne sta approfittando per scoraggiare i viaggi all’estero con la solita scusa di evitare i contagi provenienti da altri Paesi.
Nel frattempo si è quasi totalmente bloccata la produzione di automobili Tesla e Volkswagen costruite in Cina, e incontrano grandi difficoltà anche industrie hi-tech come la Apple che avevano delocalizzato nel Paese del Dragone molte attività chiave. Sui social network, a dispetto dei rigidi controlli, cresce la protesta dei cittadini che temono una nuova ondata di povertà.
Il Partito, comunque, insiste, e ha persino rinunciato ad ospitare la Coppa d’Asia di calcio, per la quale erano stati costruiti 10 stadi nuovi di zecca. Si avvicina inoltre la ricorrenza della strage di Piazza Tienanmen, che avvenne il 4 giugno 1989. Le autorità stanno prendendo misure di sicurezza eccezionali, temendo soprattutto la protesta degli studenti che potrebbero sentirsi incoraggiati dalla grave crisi economica.
Le difficoltà di Xi Jinping
Il problema è che il decoupling autonomo cinese può causare gravi danni al mondo intero, che si aggiungerebbero a quelli dovuti all’invasione russa dell’Ucraina. La dirigenza cinese deve pertanto affrontare una situazione d’emergenza. Tenendo anche conto del fatto che la stretta alleanza con la Russia di Putin è stata criticata, pur se in modo velato, da alcuni settori del Partito.
In autunno Xi Jinping dovrebbe essere eletto segretario ottenendo un inusuale terzo mandato. Tuttavia molti analisti prevedono difficoltà, nonostante l’apparente completo controllo della nomenklatura che gli viene attribuito. Un fatto è comunque certo. Se la crisi cinese continua, le prospettive dell’economia globale diventerebbero peggiori del previsto, aggiungendosi a quelle già prodotte dalla guerra in Ucraina.