A pochi mesi dalla sfida elettorale vera e propria delle presidenziali 2024, la società americana appare divisa, frantumata e magmatica. Dalle contaminazioni e fluidità dei gruppi etnico-sociali rispetto ai due candidati fino al peso dei rapporti con Pechino. La cartina di tornasole della crisi della governance statunitense e delle divisioni al suo interno, rendendo il suo esito tanto cruciale quanto incerto.
Per comprendere i veri nodi delle elezioni americane abbiamo intervistato l’ambasciatore Sergio Vento, già ambasciatore a Belgrado, Washington e New York, e Parigi, consigliere diplomatico di cinque presidenti del Consiglio e professore di storia delle relazioni internazionali.
Il rapporto con Pechino
FRANCESCO SUBIACO: Ambasciatore Vento, quali saranno, secondo lei, le principali sfide che verranno sia dalla dimensione interna che da quella internazionale delle elezioni americane?
SERGIO VENTO: Non c’è dubbio che le esigenze e le tensioni all’interno della società americana avranno un peso dominante nel responso di novembre. Ma prima di analizzare le dinamiche interne è opportuno dedicare qualche riflessione alle complesse sfide che gli Stati Uniti dovranno affrontare in campo internazionale.
In una precedente intervista abbiamo parlato della gestione del rapporto transatlantico, cioè tra Stati Uniti ed Europa, sullo sfondo della guerra in Ucraina e delle sue possibili evoluzioni. Oggi è il caso di ricordare l’altro aspetto strategico che assume priorità per gli interessi americani. Mi riferisco alla gestione dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, e alla definizione di sfere di influenza nella regione dell’Indopacifico.
FS: Cosa potrebbe cambiare?
SV: Con una vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca avremmo, forse, un calo di tensione nei rapporti con la Russia (un’opzione che preoccupa molto gli europei), ma verosimilmente un aumento delle tensioni con la Cina, che potrebbe compromettere quel dialogo pragmatico e responsabile costruito nei mesi scorsi da Jake Sullivan e Wang Yi. E del quale l’incontro al vertice di San Francisco del novembre scorso, tra Joe Biden e Xi Jinping, aveva costituito un momento significativo.
Il dialogo tra Washington e Pechino è stato suggerito dall’opportunità di evitare quella che Larry Summers, uno degli architetti della globalizzazione finanziaria e tecnologica dell’era Clinton, oggi entrata in una fase di ridimensionamento, aveva definito MAFD (Mutual Assured Financial Destruction), ovvero un collasso economico e finanziario reciproco dato dalla rescissione dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, che si è sostituito per la sua pericolosità ai rischi della MAD (Mutual Assured Destruction) degli anni della Guerra Fredda.
L’offensiva di Trump contro la globalizzazione rischia di compromettere il più cauto derisking che l’amministrazione Biden è sembrata privilegiare. Soprattutto rispetto ad un brutale decoupling fra la prima e la seconda economia mondiale che favorirebbe in tal modo la totale saldatura strategica tra Pechino e Mosca, che non è certo nell’interesse dell’Occidente.
In ogni caso va registrata una tendenza, comune ad entrambi gli schieramenti, favorevole a un accentuato protezionismo che potrebbe avere riflessi negativi non soltanto sui rapporti con Pechino, ma anche su quelli transatlantici. In questo scenario la governance statunitense appare molto incerta e divisa.
L’agenda interna
FS: Su quali temi invece di politica interna si giocherà la sfida elettorale di novembre?
SV: Ci sono alcuni temi cruciali, che, a mio avviso, saranno determinanti in questo appuntamento elettorale. Prendiamo il tema dell’immigrazione, complementare a quello del contrasto alla delocalizzazione produttiva, bersaglio favorito dell’agenda di Trump su cui anche i Democrats, a quanto risulta, hanno rivisto le loro posizioni.
Sull’immigrazione i Democrats, infatti, vanno assumendo posizioni sempre più guardinghe, nella consapevolezza che si tratta di un tema troppo importante per essere gestito da posizioni ideologiche, che farebbero solo il gioco di Trump. Malgrado i nuovi ingressi siano stati 2,3 milioni circa durante la presidenza Biden, i Democratici stanno spingendo per una politica di contenimento degli ingressi, favorendo le espulsioni.
Anche sul tema delle delocalizzazioni, con l’Inflation Reduction Act, il Chip Act, ed altre misure di politica industriale, l’amministrazione Biden ha incentivato una tendenza al reshoring e al friendshoring nell’ottica di un rientro di jobs e capital negli Stati Uniti. In altri termini è stata capita la lezione dello spostamento del voto favorevole a Trump dei Blue collars negli Stati più colpiti dalle politiche di offshoring.
Viceversa è possibile affermare che i Repubblicani hanno peccato di intransigenza sul tema dell’aborto, ripiegando su posizioni tipiche della Bible Belt. Anche se tale linea non è dettata unicamente da preoccupazioni etico religiose, ma è funzionale ad una politica demografica complementare ad una politica antimmigrazione.
Nikki Haley e Kennedy Jr.
FS: Non vede quindi una fluidità tra queste due agende su alcuni temi caldi?
SV: In effetti, il frazionamento non si limita a quello che semplicisticamente viene definito lo scontro tra le due Americhe, in quanto il panorama è molto più articolato e differenziato. Ad esempio la candidatura, come indipendente, di Robert F. Kennedy Jr. può intercettare voti sia dal mondo progressista che da alcuni ambienti dell’elettorato di Trump. Bisognerà vedere che risultato farà Kennedy e se sottrarrà voti ai Democratici, come avvenne a parti invertite nel caso della candidatura di Ross Perot nel 1992, che tolse voti a Bush, favorendo Clinton.
È importante però non sottovalutare quanto l’elettorato più moderato o più libertarian potrà accogliere la riconferma di Trump come candidato del Gop. Spostando i propri voti verso Biden o generando una forte astensione, anche alla luce del peso del mancato endorsement e della latente ostilità di Nikki Haley. Anche se molto dipenderà dai “giochi” di nomine che ci saranno in occasione della prossima convention nazionale repubblicana di Milwaukee del prossimo luglio. Una variabile non da poco di fronte ad una partita elettorale che si giocherà soprattutto sul peso delle astensioni.
Il voto dei gruppi etnici
FS: Secondo lei chi riuscirà ad integrare nella propria proposta politica maggiori componenti etniche e religiose della società americana, soprattutto in uno scenario molto fluido e frammentato?
SV: Lo scenario elettorale appare disgregato e profondamente indebolito nelle certezze tradizionali, rendendo complesso prevedere come i gruppi etnici e sociali si posizioneranno rispetto ai due candidati.
FS: Prendiamo alcuni casi…
SV: Tradizionalmente la componente ebraica vota ed ha sempre votato principalmente per i Democratici, anche per l’eredità e il legame con Roosevelt e Truman. Con i neocon una parte del voto ebraico ha iniziato a guardare verso i Repubblicani e, negli ultimi anni, Trump, grazie al ruolo del genero Jared Kushner, è riuscito ad intercettare molti voti delle componenti più conservatrici del mondo ebraico.
Ma a mio avviso molti dei voti della comunità ebraica dipenderanno dal giudizio che le singole comunità daranno di Netanyahu nel bene o nel male. Sintomatica è la posizione di Chuck Schumer, personaggio di rilievo del mondo ebraico newyorkese e leader della maggioranza democratica al Senato, favorevole a nuove elezioni che comportino l’allontanamento di Netanyahu dalla guida del governo e la rottura della coalizione con i partiti più piccoli e aggressivi della destra israeliana.
Anche tra gli altri gruppi etnico-culturali si stanno sviluppando delle profonde trasformazioni. Trump, ad esempio, attira sempre più l’elettorato afroamericano, e acquista consensi anche in quello ispano-americano. Non solo nella componente che proviene da regimi autocratici (ad esempio i venezuelani ostili a Maduro e i cubani della Florida), ma anche da alcune componenti latinos favorevoli ad una gestione dei flussi migratori.
Infine, anche fra i cattolici, che in passato hanno sempre manifestato una preferenza per i Democratici, si manifesta un disagio per le tendenze progressiste e woke che si manifestano in seno alla coalizione che portò Biden alla Casa Bianca nel 2020.
Ciò mostra una certa fluidità e un forte slittamento di posizioni e consensi nella società americana. Le placche tettoniche della società americana sono in forte movimento e danno origine a fenomeni di contaminazione, frammentazione e tensione. In altri termini, tali comunità non sono più coese, ma frammentate.
Il programma repubblicano, ad esempio, favorevole ad una fiscalità non penalizzante dei redditi più alti trova consensi anche nelle componenti centriste democratiche. Così come le due coste sono solitamente democratiche le collettività del Bible Belt (Dakota, Nebraska e Alabama) e quelle del Rust Belt deindustrializzato, il mondo industriale dismesso dalla globalizzazione, è solidamente repubblicano.
FS: In conclusione quale sarà il vero terreno su cui si giocheranno le elezioni americane?
SV: La vera battaglia sarà, quindi, su chi saprà sfruttare questi slittamenti e contaminazioni per rafforzare la propria proposta, magari costruendo un consenso per intersezione tra i delusi delle principali famiglie etniche e religiose americane. Soprattutto nei cosiddetti swing states…