Quante dimostrazioni e prove servono prima di “aprire gli occhi” sul Medio Oriente? Il 7 ottobre di un anno fa è uno di quegli eventi che gli inglesi definiscono con un’espressione che in italiano non può essere tradotta mantenendo la stessa sintetica efficacia: eye opener (che permette di aprire gli occhi). Nonostante tutto, siamo ancora qui ad assistere ad un mondo di opinionisti e di influencer che pretenderebbero di farci aprire gli occhi su un “genocidio” che non c’è: quello dei palestinesi a Gaza. La moda-tormentone del “All eyes on Rafah” (tutti gli occhi siano puntati su Rafah) ne è l’esempio più lampante.
Il vero obiettivo di Hamas
Su cosa avremmo dovuto aprire gli occhi il 7 ottobre? Sugli obiettivi dichiarati e in parte anche realizzati di Hamas e sul ruolo di complice sia dell’Iran che dell’Autorità Palestinese. Il 7 ottobre, Hamas ha dimostrato che il suo reale obiettivo è solo quello di assassinare ebrei. Lo sfondamento della barriera di confine e la temporanea sconfitta delle guarnigioni di confine erano solo strumentali, un mezzo per raggiungere il fine. Il fine è stata l’uccisione indiscriminata di civili ebrei.
Una volta che è stata colta di sorpresa l’IDF, la forza di difesa israeliana, Hamas non ha sfruttato il suo temporaneo successo per conseguire obiettivi militari o politici. Non sono state attaccate basi militari, né obiettivi economici. Non sono stati assassinati politici, né comandanti militari. L’unica cosa a cui i terroristi di Hamas miravano erano i civili. E li hanno uccisi in gran numero, almeno 1.200 secondo le stime più aggiornate. Li hanno assassinati ovunque si trovassero: in auto lungo le strade, nelle loro case, nei loro letti, o quando erano intenti a ballare in un rave party, il luogo in cui, essendo più concentrati, sono stati uccisi più in gran numero in una sola volta.
Hamas non si è limitato ad uccidere. Ha voluto far soffrire le sue vittime nel peggiore dei modi. Vedere i video delle torture e delle uccisioni dei civili israeliani può causare un disturbo post traumatico allo spettatore non preparato alla violenza estrema. Quegli israeliani che sono stati uccisi con un colpo di fucile sono stati i più fortunati. Gli altri hanno subito dei supplizi che parevano seppelliti nella memoria delle invasioni degli unni o dei tartari, nelle guerre di religione di quattro secoli fa o nelle peggiori barbarie commesse durante la Seconda Guerra Mondiale. Non stiamo a descriverle, ma chi volesse approfondire l’argomento può leggere o (se ha il coraggio) guardare molto materiale che è stato raccolto il 7 ottobre. Nulla è mai stato nascosto.
L’ostentazione dell’orrore
E questa è, appunto, la terza lezione che avremmo dovuto apprendere dal 7 ottobre: il pogrom scatenato da Hamas è stato ampiamente documentato dai terroristi stessi che lo hanno commesso. Ognuno di loro aveva la sua body cam con cui riprendeva in tempo reale quel che stava facendo. Anche le torture più crudeli e fantasiose sono state filmate in tempo reale.
Poi tutti questi “snuff movies” sono stati mandati subito sul web, affinché la gente sapesse subito tutto quel che era stato fatto. Da questo punto di vista, Hamas si è dimostrato molto diverso dai precedenti persecutori degli ebrei, soprattutto dai nazisti, che facevano di tutto per nascondere i loro crimini.
Gli ostaggi
L’altra scena che avrebbe dovuto aprirci gli occhi è stata la parata dei “vincitori” di ritorno a Gaza. Portavano con sé i prigionieri, ridotti in schiavitù, come da tradizione di tutti gli eserciti antichi. Gli ostaggi catturati erano ben 251, un bottino incredibilmente ricco per un gruppo terrorista che ha visto quanto sia disposta a pagare Israele per ogni singolo cittadino o soldato catturato. Il solo caporale Gilad Shalit era stato scambiato con mille prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza, mente del 7 ottobre.
Gli ostaggi liberati narrano di altre scene da film dell’orrore, sevizie, torture fisiche e psicologiche, isolamento, fame, peggio che in un lager. Basta vedere dove erano tenuti i sei sfortunati ostaggi che sono stati assassinati in settembre, poco prime che l’IDF arrivasse a liberarli: un tunnel scavato in profondità, basso tanto da non poter neppure rimanere in piedi, buio, senza alcun tipo di igiene (feci nel secchio, urina in bottiglia). Per undici lunghi mesi, fino a un’esecuzione capitale finale: questa è stata la vita dei sei ostaggi assassinati.
Non vengono risparmiate sofferenze neppure ai prigionieri musulmani. Kaid Farhan Elkadi, beduino, liberato in un raid dell’esercito israeliano, è stato ferito, operato senza anestesia, nutrito a pane e acqua. Ed ha dovuto assistere all’omicidio di un altro prigioniero.
La partecipazione dei civili
In tutto questo, che ruolo ha avuto la popolazione di Gaza? Dovrebbero esserci rimaste impresse le immagini, appunto, del ritorno dei “vincitori” del 7 ottobre. Un trionfo. La gente festeggiava per strada, mentre i pick up dei terroristi tornavano trasportando gli ostaggi, o i cadaveri orrendamente mutilati degli israeliani che avevano appena ucciso. “Papà, ne ho uccisi con le mie mani!” urlava al telefono un terrorista al padre. E quello: “Che Dio ti protegga! Allah Akhbar!”.
Questo è l’atteggiamento medio: piena partecipazione, oltre la normale complicità. In giugno, un sondaggio ha rilevato che i due terzi dei palestinesi approvano il pogrom. E le teste mozzate degli israeliani sono state vendute all’asta. Ai confini del cannibalismo.
Significativa anche la reazione dell’Autorità Palestinese: nessuna. Quella che viene ormai riconosciuta come la prima pietra del futuro Stato palestinese non ha neppure lamentato il comportamento dei terroristi di Hamas, neppure ha avuto l’ipocrisia di definirli “compagni che sbagliano”. Dalle massime cariche palestinesi è giunta solo una tacita approvazione, quando non un’approvazione esplicita. Al massimo Abu Mazen, presidente (ormai eterno) dell’Ap, è giunto a dire che Hamas, così facendo “ha fornito un pretesto” a Israele per attaccare Gaza.
Il sostegno iraniano
Il 7 ottobre dovrebbe anche aprire definitivamente gli occhi anche sull’Iran, che dal giorno uno, ha fornito pieno sostegno politico, propagandistico e militare alla causa di Hamas. L’8 ottobre, a cadaveri ancora caldi, Hezbollah (emanazione del regime di Teheran in Libano) iniziava il suo lancio di razzi contro il nord di Israele. Una settimana dopo, gli Houthi (emanazione del regime di Teheran nello Yemen) davano inizio ad una guerra di pirateria contro le navi che attraversavano il Mar Rosso, per implementare un rudimentale blocco navale contro Israele.
L’Iran è direttamente coinvolto nel 7 ottobre, informato dei fatti quasi in tempo reale, come dimostrano le riunioni (per la prima volta documentate anche con foto) a Beirut fra i vertici di Hamas, Hezbollah e della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Per non parlare di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, che in Iran era letteralmente di casa. I servizi israeliani lo hanno ucciso… a Teheran.
La vera natura del conflitto
Il 7 ottobre avrebbe dovuto aprirci gli occhi sulla natura del conflitto mediorientale: una guerra combattuta da Israele per la sua sopravvivenza, contro un nemico che vuole gli israeliani morti. Nonostante tutto, a giudicare dai discorsi dei governi occidentali e da quel che leggiamo ogni giorno nelle pagine dei commenti delle maggiori testate europee e nord americane, si parla ancora del vecchio progetto (datato 1947) dei “due popoli in due Stati”, spacciato come soluzione magica della guerra.
Quale convivenza può essere possibile e quale confine si può tracciare se c’è un popolo che ne vuole annientare un altro? Si parla della questione mediorientale, come se fosse solo mediorientale. Ma l’Iran è coinvolto sin dall’inizio. Soprattutto, si fa pressione su Israele (e solo su Israele) perché accetti una pace di compromesso, pur sapendo ormai che combatte contro nemici che non accetterebbero mai compromessi fino all’annientamento fisico totale del popolo ebraico in Israele.
Pur avendo visto di che pasta sono fatti i terroristi di Hamas (dai loro stessi video) diamo ancora per buona la loro versione dei fatti. Sentiamo descrivere la guerra a Gaza come un “genocidio israeliano”, abbiamo rilanciato la notizia di carestie che non c’erano, di assedio per fame quando i camion portavano aiuti alimentari, di decine di migliaia di bambini morti che nessuno (se non Hamas e i suoi complici) ha mai potuto contare.
Le parole hanno conseguenze e il loro effetto è un progressivo isolamento di Israele, della parte aggredita, della nazione che lotta per la sopravvivenza. Come se il 7 ottobre non fosse mai esistito.