Non è stata certo una partenza fulminante quella del governatore della Florida Ron DeSantis, che mercoledì sera ha annunciato la sua corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca. Decisione che era nell’aria, ma che ora è ufficiale.
Successo di Twitter
Cosa non ha funzionato? Molto si è parlato della decisione di annunciare la sua candidatura su Twitter Spaces, lo spazio della piattaforma dedicato alle chat room. L’evento con Elon Musk, moderato da David Sacks, ha in effetti avuto delle difficoltà tecniche iniziali, che hanno causato un ritardo dell’annuncio di circa 20 minuti, scatenando la prevedibile ironia di Donald Trump e dei suoi sostenitori: #DeSaster l’hashtag subito lanciato sui social.
Anche se non tutti i 600 mila utenti che all’inizio hanno provato a collegarsi ci sono riusciti, i circa 300 mila che ce l’hanno fatta non sono certo pochi. E l’evento ha totalizzato un’audience di 3,4 milioni di utenti, come ha osservato Sacks “di gran lunga la chat room più grande mai tenuta sui social media. Twitter ha funzionato alla grande dopo alcune sfide iniziali”.
Per Twitter quindi l’evento è stato un successo, confermando le potenzialità della piattaforma come townhall e broadcaster che può fare concorrenza ai media tradizionali, tv e stampa.
Un duello nel duello che già si intravede in queste presidenziali 2024, infatti, è proprio quello tra il nuovo Twitter di Musk e i network televisivi. La sfida è lanciata e nelle critiche alla chat dell’altra sera, così come nel risalto dato alle difficoltà tecniche iniziali, si percepisce il nervosismo dei media tradizionali. Riderà bene chi riderà ultimo.
Cosa non ha funzionato
Quello che non ha funzionato per DeSantis non è stato il mezzo, ma purtroppo per lui il candidato stesso. Non per i contenuti politici, in definitiva molto trumpiani, ma per la comunicazione poco empatica e poco carismatica, almeno non ai livelli di Trump.
All’inizio il governatore ha letto un testo scritto ed è stato molto noioso. Anche più avanti è rimasto noioso, troppo impostato, mentre nella seconda parte è stato più vivace, si è sciolto e ha mostrato il suo lato competitivo.
Deboluccio e freddino anche lo spot iniziale, con la bandiera Usa come unica scenografia e un DeSantis mono-tono, rigido.
Anche lo slogan della campagna, “Great American Comeback”, non è una gran trovata. Riecheggia troppo il trumpiano e più famoso MAGA (Make America Great Again), apparendo una brutta copia, una sorta di versione discount. Siamo solo all’inizio, ma no, la prima non è buona.
Le politiche
Dove invece DeSantis ha confermato di essere solido e ben preparato è sulle policies. Il buon governo in Florida parla per lui e infatti viene elevato a modello.
Ha difeso le libertà individuali nel suo Stato durante la pandemia, con risultati non peggiori degli altri, mostrando autonomia di giudizio e spina dorsale sufficienti per osare un approccio alternativo a quello ufficiale “chiusurista”, evitando i lockdown e gli obblighi in vigore in altri Stati.
Ha compreso l’importanza delle guerre culturali (al contrario della maggior parte delle destre in Europa) e non ha avuto esitazioni ad usare la forza della legge per combatterle, difendendo le famiglie e i bambini dall’indottrinamento gender e Critical Race Theory nelle scuole.
Non meno importanti i tagli fiscali e la legislazione anti-ESG. Non c’è spazio in Florida per il fanatismo climatico, la cultura woke e il “marxismo culturale”.
Nella chat con Elon Musk è tuttavia mancata quasi del tutto la politica estera, tranne qualche passaggio ambiguo sull’Ucraina. Il che può anche andare se sei governatore della Florida, non se ti candidi alla presidenza.
L’elefante nella stanza
C’è poi l’elefante nella stanza: ovviamente lui, Donald Trump. Da DeSantis non è partito alcun attacco a Trump, nemmeno citato per nome. Solo un vago riferimento alla “cultura della sconfitta” del Gop, che però non riguarda certo solo l’ex presidente ma si può estendere a quasi tutti.
Nessuno durante la chat room su Twitter, né Musk né Sacks, gli ha chiesto di Trump, né lui ha sentito il bisogno di entrare nell’argomento. Su Trump ovviamente la posizione di DeSantis si fa delicatissima, è di estrema debolezza, una posizione lose-lose.
Se lo attacca, fa arrabbiare i MAGA Republicans, oggi la stragrande maggioranza del partito, di cui avrà comunque bisogno, se dovesse vincere le primarie, per arrivare alla Casa Bianca. Se non lo attacca, appare debole, un fifone, e rischia di scontentare quei Repubblicani che invece vorrebbero liberarsene, e a cui la sua candidatura è naturalmente rivolta, pur essendo minoritari.
Qual è allora la specificità di DeSantis? Non sta certo nella sua proposta politica, ma nella sua “normalità”, nella “presentabilità” rispetto a Trump. La domanda da porsi quindi è: premesso che è impensabile un trumpismo senza Trump, ovvero senza Trump non può esserci trumpismo, gli elettori repubblicani sono pronti per un ritorno alla normalità, rappresentato da DeSantis, o lo scambieranno per un ritorno dell’establishment.
Il dilemma di DeSantis non è altro che il riflesso del dilemma del Gop. Trump mobilita i suoi ma anche gli elettori avversari. Un candidato diverso da Trump però si perderebbe per strada una parte probabilmente decisiva del popolo MAGA, senza che ciò gli garantisca di sopperire con il voto “moderato”.
Per i Repubblicani la strada che porta alla Casa Bianca appare più stretta e tortuosa di quanto non dicano i sondaggi di questi giorni.