In Venezuela sta iniziando un fenomeno molto raro di questi tempi: una rivoluzione liberale. Già è raro che scoppi una rivoluzione in un regime ormai apertamente dittatoriale. Ma la vera buona notizia è che i rivoluzionari siano animati da idee liberali.
Ci sono ancora poche, pochissime possibilità che i rivoluzionari vincano contro l’apparato messo in piedi da Hugo Chavez e dal suo successore Nicolas Maduro. Ma se vincessero, sarebbe la seconda buona notizia (in un anno) del continente americano dopo la vittoria elettorale di Javier Milei in Argentina. Non a caso, Milei è attualmente alla testa delle nazioni che sostengono la causa rivoluzionaria in Venezuela.
Più di una protesta
Perché rivoluzione e non solo “protesta”? Prima di tutto, perché gli insorti stanno abbattendo le statue di Hugo Chavez. Le proteste in Venezuela sono state molto numerose negli anni di Maduro. Ma in nessun caso, prima di questo, erano state abbattute le statue del leader fondatore del bolivarismo, cioè del socialismo in salsa latina al potere dalla fine del secolo scorso. Se si distruggono i miti fondativi e i loro simboli pubblici, come le statue di Lenin negli ultimi mesi dell’Urss, c’è qualcosa di più di una semplice “protesta”, c’è piuttosto una volontà di cambiare sistema.
I brogli
La causa immediata del moto rivoluzionario venezuelano è la frode elettorale che ha consentito a Maduro di essere rieletto presidente per la terza volta. Non si tratta solo di supposizioni, ma di numeri: secondo l’ultimo rapporto reso pubblico dalle opposizioni, l’81 per cento dei registri elettorali digitalizzati mostra una clamorosa vittoria di Edmundo González Urrutia, il candidato della coalizione Piattaforma Unitaria Democratica (Pud), con il 67 per cento dei voti contro il 30 ricevuto da Nicolás Maduro, il presidente uscente del Partito Socialista Venezuelano.
Questo risultato conferma e supera quanto era emerso dai sondaggi indipendenti un mese prima del voto. Secondo Clear Path Strategy e Consultores 21, Gonzalez avrebbe superato Maduro 56 per cento a 35.
La repressione prima del voto
La causa di medio periodo del malcontento è la repressione che ha preceduto il voto. La candidata scelta dalle primarie era infatti María Corina Machado. È leader del partito liberale Vente Venezuela, figlia di un ingegnere e imprenditore, attivista politica sin dall’inizio del regime di Chavez, prima come fondatrice della ong Sumate, poi come parlamentare dell’opposizione (2011-2014). Nel 2023 era stata eletta nelle elezioni primarie del Pud con il 92 per cento dei voti in elezioni primarie a cui avevano partecipato circa 2 milioni e mezzo di venezuelani. Ma la Machado non ha potuto candidarsi perché il regime chavista l’ha esclusa dalla competizione elettorale per via giudiziaria.
La persecuzione è continuata anche contro i suoi successori. La Machado aveva scelto un’anziana docente di filosofia, Corina Yoris. Ma, pur non avendo alcuna condanna, anche quest’ultima è stata esclusa dalla competizione, per problemi reiterati di registrazione. Non con la magistratura ma con la burocrazia, insomma, Maduro si è disfatto facilmente anche di quest’altra potenziale rivale.
Infine si è candidato l’anziano diplomatico in pensione Edmundo Gonzalez Urrutia. Non un uomo carismatico, sicuramente, ma già conosciuto come rappresentante dell’opposizione democratica all’estero. La Machado ha fatto campagna per lui, girando in lungo e in largo nel Paese, rischiando la vita anche nei quartieri più chavisti di Caracas. E il regime non l’ha lasciata in pace neanche un giorno. Le auto dei convogli della campagna elettorale venivano fermati e ispezionati ai posti di blocco. Chi vendeva gadget nei comizi era multato. Persino chi vendeva cibi e bevande nei luoghi in cui si tenevano i comizi della Machado, rischiava di essere fermato.
Secondo la ong Foro Penal, prima del voto erano detenuti 301 attivisti politici, per ragioni squisitamente politiche. Ben 71 arresti sono stati effettuati solo nei primi dieci giorni di campagna elettorale e sono quasi tutti militanti di Vente Venezuela. Altri sei membri del partito liberale sono rifugiati nell’ambasciata dell’Argentina a Caracas e non possono lasciare il Paese.
La crisi del regime bolivariano
Se la persecuzione dell’opposizione democratica è la causa di medio periodo e la frode elettorale quella immediata, la causa di lungo periodo della rivoluzione che sta scoppiando in Venezuela è lo stato agonico in cui versa il regime bolivariano, non da adesso, ma da decenni. Circa 19 milioni di persone in Venezuela non hanno accesso all’assistenza sanitaria né ad un’alimentazione adeguata. È cronica la carenza di elettricità (in un Paese che è uno dei più grandi produttori di petrolio) e persino di acqua.
Il deterioramento delle infrastrutture e la mancanza di servizi di base nelle aree rurali spingono la migrazione verso i centri urbani. La crisi si ripercuote sull’istruzione, lasciando oltre il 26 per cento dei bambini fuori dalla scuola. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che 7,7 milioni di persone, circa un quinto della popolazione, siano fuggite dal Paese. Si tratta dell’emigrazione più massiccia al mondo in un Paese che non è in guerra.
Il programma di Machado
A questa situazione, la Machado intende rispondere con una grande riforma liberale. Già nel gennaio 2012, quando era parlamentare dell’opposizione, aveva contestato Hugo Chavez, con argomenti sono l’Abc del liberalismo classico. Di quello scambio di interventi, che l’ha esposta alle ire del regime (è stata esclusa nel 2014 dall’Assemblea Nazionale, con l’accusa di un presunto conflitto di interessi), lei stessa ricorda:
A un certo punto, lui (Chavez, ndr) ha iniziato ad attaccare me e la mia famiglia. Così, quando mi ha dato la possibilità di parlare, mi sono alzata e gli ho raccontato cosa stava succedendo in questo Paese. La distruzione del comparto produttivo, tutte le famiglie senza cibo, l’insicurezza, gli omicidi. E gli ho detto: “L’esproprio è un furto!”. E questo provocò una grande agitazione, perché era la prima volta che qualcuno diceva a Chavez in faccia quello che stava facendo.
In quella stessa intervista rilasciata a Forbes la Machado descriveva sommariamente il suo programma di privatizzazioni e liberalizzazioni. Questi i passaggi più significativi:
Abbiamo bisogno di un Paese in cui la moneta abbia valore. Dove si vive grazie al proprio lavoro, non alle elemosine, alle briciole che il regime ti dà a condizioni, solo se ti comporti bene. Possiamo avere la migliore istruzione del mondo. Intendo davvero la migliore del mondo.
Inoltre, quanto ai servizi di welfare:
Abbiamo bisogno di un sistema sanitario pubblico a copertura universale, basato sulla valorizzazione del paziente. Un sistema di sicurezza sociale che permetta la capitalizzazione individuale. Le persone dovrebbero essere in grado di utilizzare assicurazioni private, ma allo stesso tempo tutti dovrebbero avere una copertura garantita.
Come obiettivo prioritario, comunque, la Machado indica la difficile stabilizzazione dei conti pubblici:
Da dove cominciamo? Dobbiamo fare ordine in casa. Nessuno sa quali siano i dati macroeconomici del Venezuela. Nessuno conosce la reale entità del nostro debito, la quantità di petrolio che produciamo, l’entità delle nostre riserve! Sappiamo solo che stanno rubando, che stanno saccheggiando questo Paese. Abbiamo perso 23 miliardi di dollari, solo nella PDVSA, il gigante petrolifero di proprietà dello Stato (…) Abbiamo bisogno di un processo che chiamiamo “stabilizzazione espansiva”. Così come stabilizziamo la situazione monetaria e fiscale, iniziamo a mettere il Paese sulla strada della crescita.
Queste sono le idee principali della rivoluzione liberale che potrebbe cambiare per sempre il Venezuela. Magari fallirà, come sono fallite tutte le precedenti. Ma è sempre un esempio per noi: da qualche parte nel mondo, anche nel luogo più impensato, si sfida ancora la morte per riottenere la libertà rubata dallo Stato.