Le aggressioni imperialiste e i genocidi, nel corso della storia, si sono abilmente camuffati dietro al linguaggio della “pace” e della necessità di “autodeterminazione” delle “minoranze”. Adolf Hitler, come ripeteva la sua propaganda, voleva difendere i “diritti” dei tedeschi dei Sudeti e liberarli dall’oppressione e dalle persecuzioni messe in atto dalla democratica Cecoslovacchia.
Il caso Cecoslovacchia
In realtà, i tedeschi etnici che vivevano sotto il dominio cecoslovacco erano trattati infinitamente meglio di quanto lo fossero i tedeschi sottoposti al dominio nazista. Anzi, probabilmente, i tedeschi dei Sudeti erano la minoranza meglio trattata di tutta Europa. L’autodeterminazione dei Sudeti era solo uno stratagemma hitleriano per invadere e distruggere tutta la Cecoslovacchia e compiere il genocidio della sua popolazione ebraica.
L’allora Stato cecoslovacco possedeva diversi aspetti in comune con l’Israele moderno. Si trattava di uno stato nazionale ricreato dopo secoli. Nel Medioevo, e per tutta l’età moderna, la Boemia e la Moravia erano stati regni separati, godendo di vari gradi d’indipendenza nell’ambito del Sacro Romano Impero.
Il moderno nazionalismo ceco emerse nella seconda metà del XIX secolo. Durante la Prima Guerra Mondiale, i cechi parteciparono allo spionaggio contro le potenze dell’Intesa e i loro leader fecero pressioni nelle capitali europee per ottenere l’indipendenza. Nel 1918 ristabilirono la loro sovranità in accordo coi “cugini” slovacchi.
I tedeschi dei Sudeti
Il nuovo Stato conteneva una popolazione diversificata ed eterogenea. In particolare, circa il 23 percento dei suoi cittadini erano di etnia e lingua tedesca, concentrati nella parte occidentale nota come Sudeti. La maggior parte di loro si oppose violentemente all’incorporazione nello stato cecoslovacco, identificandosi apertamente con la Germania. I tedeschi dei Sudeti si opposero frontalmente all’esistenza stessa del nuovo Stato.
La Cecoslovacchia, governata da socialdemocratici impegnati in ambiziose riforme sociali, tentò di risolvere il problema rappresentato dalla minoranza ostile attraverso l’integrazione economica e la tolleranza verso la diversità linguistica. Il primo presidente cecoslovacco, Tomáš Garrigue Masaryk, un politico volitivo, carismatico e progressista, propose un programma di uguaglianza di tutti i gruppi nazionali all’interno dello Stato.
Alla minoranza tedesca fu permesso di gestire le proprie scuole nella propria lingua e di controllare i propri affari locali. Il tedesco era la lingua nazionale ufficiale nelle aree germanofone della Cecoslovacchia. I tedeschi dei Sudeti potevano votare e furono eletti al parlamento.
Lo stratagemma di Hitler
Tuttavia, nel 1937 i tedeschi dei Sudeti si trovarono al centro di crescenti tensioni. Adolf Hitler vedeva nella vicina nazione nient’altro che un’area da assorbire e integrare nel Reich. Man mano che crescevano le tensioni internazionali, Berlino denunciò con crescente forza la “discriminazione” nei confronti dei Sudeti. Nel frattempo, la minoranza tedesca abbandonò la relativa coesistenza pacifica a favore della polarizzazione e dell’estremismo. Nacquero persino gruppi paramilitari come la Heimatbund, responsabili di numerosi atti di violenza organizzata.
Hitler fece della questione dei “diritti nazionali” dei Sudeti il suo principale strumento di demonizzazione della Cecoslovacchia. Il problema della minoranza assunse, rapidamente, dimensioni internazionali.
Le potenze occidentali, come ha scritto lo storico ceco Radomír Luža, trattarono il presidente della Cecoslovacchia Beneš come “se fosse stato il capo di una tribù in Africa”, mentre Neville Chamberlain e il primo ministro francese Édouard Daladier accusarono Praga di “opprimere” i tedeschi dei Sudeti e di essere quindi responsabile delle tensioni con Berlino.
Il 1° ottobre, in seguito alla Conferenza di Monaco, la Wehrmacht entrò nei Sudeti, per poi espandersi in tutta la Cecoslovacchia. Vale la pena notare i parallelismi esistenti tra la “questione” dei Sudeti e quella palestinese.
Uno Stato palestinese
In entrambi i casi, la campagna contro la presunta “oppressione” di un gruppo nazionale minoritario è servita, di fatto, come strumento di aggressione contro lo Stato che l’ospitava. Dal 1948, coloro che vorrebbero distruggere Israele hanno costantemente insistito sul fatto che stavano agendo per magnanimità morale e compassione verso i loro fratelli “palestinesi”, cercando semplicemente di aiutare questi ultimi a raggiungere l’autodeterminazione nazionale, sebbene il loro obiettivo fosse molto più vasto e aggressivo.
L’assalto degli arabi contro Israele si fonda sulla volontà di scacciare Israele da quello che considerano il loro Lebensraum. In tal senso, il loro è un altro esempio della tendenza del XX secolo a mascherare la pura aggressività sotto un lessico ipocrita e “progressista”. Un qualunque Stato “palestinese” indipendente diventerebbe una fortezza per lanciare attacchi contro Israele, come dimostra quanto avvenuto nella Striscia di Gaza.
Le diplomazie occidentali, negli anni Trenta, scelsero d’ignorare il fatto che le richieste di autodeterminazione dei Sudeti altro non erano che uno stratagemma nazista per legittimare una conquista militare volta a distruggere un’altra nazione. Le campagne in favore dei “diritti dei palestinesi” servono, in via pressoché esclusiva, a delegittimare e indebolire la democrazia israeliana in vista di una sua aggressione.
Se mai gli arabo-palestinesi riuscissero a ottenere uno Stato, non si perverrebbe a nessuna pacifica risoluzione del conflitto. L’Occidente deve comprendere che qualsiasi forma di “autodeterminazione palestinese” o di “Stato palestinese” è destinata a tradursi in un’escalation di violenza e terrore senza precedenti. Quando l’obiettivo è una nuova Shoah, nessuna concessione territoriale è sufficiente a placare la volontà di sterminio.