Vance asfalta Walz: ecco perché potrebbe essere il colpo decisivo

Stavolta il dibattito tra i candidati vice potrebbe fare la differenza. Vance volto pacato e ragionevole del movimento MAGA, Walz nervoso ripete gli errori di Kamala

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Ancora una volta le presidenziali più strane da almeno un secolo a questa parte si confermano imprevedibili. Normalmente i dibattiti tra i candidati alla vicepresidenza sono sideshow, una mezza formalità che difficilmente riesce ad entusiasmare il pubblico e si confonde con il rumore di fondo di una campagna elettorale. Alzi la mano chi si sarebbe aspettato che lo scontro tra JD Vance e Tim Walz si sarebbe trasformato nell’ennesima disfatta per la campagna di Kamala Harris.

A parte certi pasdaran della MSNBC, per i quali è fisicamente impossibile dire la verità, quasi tutti i media mainstream sono stati costretti obtorto collo ad ammettere che il junior senator dell’Ohio ha pulito il parquet con il governatore del Minnesota con classe, calma e precisione chirurgica. Stavolta ci risparmiamo un’analisi approfondita dei 90 minuti e passa di dibattito per concentrarsi su cinque punti chiave che potrebbero fare la differenza in una campagna che potrebbe decidersi sul filo di lana.

Optics matter ed il potere dei meme

Si potrebbe parlare a lungo di come gli spettatori, rimasti disgustati dalla rissa tra il team Harris/ABC e Donald Trump, siano rimasti piacevolmente sorpresi da quello che si è visto nello studio della CBS a New York. Intendiamoci, le menzogne e le inesattezze non sono mancate ma, una volta tanto, si è parlato di cose che stanno a cuore all’elettore medio americano.

La differenza fondamentale è stata nel tono generale della conversazione e nel rispetto tra i due candidati in campo, che hanno preferito evitare attacchi personali anche quando ne avevano la possibilità. Sia Vance che Walz si sono a volte dilungati su dettagli tecnici dei rispettivi programmi, ma è proprio su queste questioni di policy che si è aperto un abisso tra i due potenziali Vp.

Il senatore dell’Ohio non ha avuto alcun problema a tornare spesso e volentieri sui risultati del primo mandato di Trump alla Casa Bianca, proponendo agli elettori indecisi una scelta chiara. Molto meno efficace Walz, che ha avuto il compito non invidiabile di dover difendere una candidata alla presidenza i cui flip-flop su una serie interminabile di policies sono ormai innumerevoli. Il suo imbarazzo e la sua ansia di dimostrare di aver imparato bene le lezioni degli spin doctors si è tradotto in una sfilza di gaffes visive ed espressioni facciali che hanno immediatamente fatto il giro della rete.

Si dice che il modo migliore di giudicare un dibattito sia di guardare il tutto senza audio, così da poter giudicare solo il linguaggio del corpo. In questo campo, il contrasto tra Vance e Walz difficilmente potrebbe esser stato più stridente. Tanto sicuro, composto, ammiccante era il candidato del Gop, quanto nervoso, sulle spine, quasi terrorizzato era l’avversario democratico. Considerato che nel mondo sempre più effimero della comunicazione politica optics matter, il trionfo di Vance è a livelli di Kennedy-Nixon, senza la scusante dell’influenza.

La masterclass di Vance

Quando Trump annunciò la scelta del giovane senatore dell’Ohio, molti tra gli osservatori dei movimenti sotterranei del Gop avevano alzato entrambi i sopraccigli. Perché non arruolare Nikki Haley, così da assicurarsi almeno un patto di desistenza con l’uniparty repubblicano? Perché non azzardare ancora di più e scegliere Tulsi Gabbard, ex deputata democratica delle Hawaii che sarebbe stata in grado di avere un maggiore impatto sugli indipendenti.

Vance era stato descritto come un’estremista, troppo conservatore con le sue posizioni pro-life, non nuovo ad uscite infelici e noto nella Beltway come un politico fin troppo massimalista, poco avvezzo ai compromessi. I media hanno avuto gioco facile a provare a dipingerlo come una versione ancora più estrema di Trump e demonizzarlo fin dal primo momento.

Chi ha frequentato l’ex Marine, invece, era sicuro che, una volta arrivato sul palcoscenico più importante, avrebbe convinto tutti. Dopo i 90 minuti di ieri sera, difficile dare loro torto. Vance si era evidentemente posto il compito di “ammorbidire” la sua immagine pubblica, mostrando una faccia pulita, pacata e ragionevole del movimento America First in grado di convincere gli indecisi e, in particolare, le soccer moms dell’America profonda.

La performance del senatore dell’Ohio è stata praticamente perfetta, specialmente dal punto di vista del tono: voce pacata ma decisa, frequenti complimenti all’avversario, richiami continui alla collaborazione con l’altra parte della barricata ma soprattutto la scelta conscia di riportare continuamente la discussione sui problemi reali dell’americano medio.

Questo non vuol dire che le sue siano state dichiarazioni prive di significato: Vance ha attaccato duro i tre anni e mezzo passati da Kamala alla Casa Bianca, ricordando continuamente che il disastro attuale è frutto in gran parte delle scelte sbagliate dell’amministrazione democratica. Dove Vance ha brillato, però, è stato nella sua capacità di schivare con facilità irrisoria le tante trappole dei “moderatori” e tornare sempre a bomba sul messaggio che voleva far passare. Riuscire a farlo rimanendo impassibile, con il sorriso di chi è talmente sicuro dei suoi mezzi da potersi permettere di non infierire sull’avversario è stata davvero una sorpresa. Ancora presto per dirlo ma una cosa è certa: non vorrei essere nei panni di chi avrà la malcapitata idea di mettersi tra lui e la Casa Bianca nel 2028.

Walz, una scelta sbagliata

Nel baseball c’è un termine per definire una partita nel quale un lanciatore riesce a non concedere nemmeno una valida agli avversari: perfect game. In questo caso c’è sempre chi sceglie di concentrarsi sulla prestazione del lanciatore e chi si mette a criticare gli errori dei battitori avversari. Le prime reazioni dopo il dibattito hanno seguito questa falsariga: l’universo dei media conservatori pronto a stappare lo champagne e celebrare il trionfo di JD Vance, i media mainstream che masticano amaro e cercano disperatamente di fornire spiegazioni per giustificare una disfatta che nemmeno i più pessimisti prevedevano.

Per quanto il senatore dell’Ohio sia stato disciplinato come pochi, dimostrando una preparazione perfetta specialmente dal punto di vista psicologico e facendo quello che non è riuscito a fare Donald Trump contro la Harris, impossibile non parlare di come il governatore del Minnesota sia apparso un pesce fuor d’acqua.

Gli osservatori più imparziali avevano già storto la bocca quando i Democratici avevano scelto di ignorare il candidato più adatto, il governatore della Pennsylvania Shapiro, ma gli insiders del DNC avevano assicurato che Walz era la persona giusta, vista la sua capacità di comunicare con la pancia del Paese. Col senno di poi, si è trattato di una gufata mica da ridere. Ad affossare Walz sono stati le impietose doppie inquadrature della CBS, che hanno fatto vedere una serie di espressioni facciali da spaccarsi dalle risate ma anche diverse gaffes verbali che saranno sicuramente sfruttate dall’eccellente team social di Trump.

Quando, di fronte all’affondo di Vance sulla censura di Big Tech nell’avvicinamento alle elezioni del 2020, Walz ha detto “I don’t run Facebook”, su X molti, a partire dalla deputata Anna Paulina Luna, sweetheart del movimento MAGA, sono stati pronti a ripostare la lettera di Meta nella quale Zuckerberg si lamentava delle continue richieste di censura da parte del governo federale.

Nel parlare dei troppi massacri nelle scuole americane, mentre Vance si è concentrato sul proliferare dei disturbi mentali alla base di tanti di questi incidenti, Walz si è confuso ed ha detto due volte di esser diventato amico degli school shooters, invece che delle famiglie delle vittime.

Per non parlare dell’autogol quando ha ammesso che, al contrario di quanto ha più volte affermato in pubblico, non si trovava in Piazza Tienanmen durante le proteste del 1989: confrontato dai moderatori ha poi detto che, talvolta, è una knucklehead, ovvero uno “scemotto”, certo non quello che ti aspetteresti da un politico messo di fronte ad una palese menzogna.

Potremmo continuare a lungo ma la sostanza rimane: se lo scopo del DNC era quello di affiancare un comunicatore efficace ad una come Kamala Harris, capace di disastri indicibili da questo punto di vista, si è trattato di una pessima scelta. Pur senza arrivare ai livelli di Biden, Walz è chiaramente inadatto ad affrontare qualsiasi intervista in diretta, il che spiega perché la campagna abbia preferito rifiutare ogni richiesta dei media. Un errore grave che potrebbe costare molto caro ai democratici il 5 novembre.

Fallito il soccorso rosso della CBS

Dopo che la ABC News aveva deciso di bruciare sull’altare dell’ideologia quel che rimaneva della sua credibilità, quasi tutti si dicevano certi che la CBS News avrebbe evitato di “tifare” in maniera troppo sfacciata per il candidato democratico. Il fatto di aver scelto come moderatrice una come Margaret Brennan, che in passato aveva affrontato temi come l’aborto in maniera piuttosto moderata, sembrava un buon inizio ma, alla fine, il groupthink all’interno delle redazioni a stelle e strisce è stato troppo forte. Invece di mettere a segno un punto nella lotta contro la ABC, dominatrice dell’informazione in prima serata sulle reti generaliste, la CBS ha fatto né più né meglio dei rivali, ricoprendosi di ridicolo.

A far venire qualche sospetto lo stesso preambolo al dibattito, quando le moderatrici (entrambe donne) hanno informato il pubblico che “non avevano fatto avere le domande alle rispettive campagne in anticipo”, accusa rivolta in maniera esplicita ai rivali della ABC. Come dice il brocardo, excusatio non petita, accusatio manifesta ed, in effetti, i 90 minuti sono stati l’ennesima lezione su come non condurre un dibattito elettorale.

A fare scalpore è stato indubbiamente l’episodio che ha visto i producer dell’Eye Network silenziare il microfono di JD Vance proprio mentre stava argomentando contro l’ennesimo fact-checking inesatto da parte delle moderatrici ma è stata solo la punta dell’iceberg.

Ancora una volta è stato concesso al candidato democratico di fare affermazioni incorrette senza essere chiamato in causa. Quando Walz ha negato più volte che la legge sull’assistenza ai neonati sopravvissuti ad un aborto ha causato decessi, le moderatrici lo hanno difeso nonostante il fatto che, in effetti, avesse ragione Vance: sono almeno otto i bambini morti per mancanza di cure nel Minnesota di Walz dopo esser sopravvissuti ad un aborto.

In generale, l’intero dibattito è apparso disonesto. Gli argomenti sono stati scelti ad arte, su temi pensati per causare il massimo imbarazzo a Vance ed aiutare la causa democratica ma, in particolare, ogni qual volta la conversazione sembrava favorire il candidato del Gop, si passava rapidamente al prossimo argomento. Chiaramente su temi come aborto o il 6 gennaio, si è indugiato fin troppo, sperando che Walz riuscisse ad assestare qualche buon colpo.

Eppure, nonostante tutto, Vance è rimasto serafico, incurante degli attacchi delle moderatrici, evitando ad arte le domande più capziose o, semplicemente, ammettendo di aver cambiato idea su questo o quell’argomento, comportamento quantomai raro nella politica moderna. Alla fine, insomma, il soccorso rosso ha fallito su tutta la linea, con Vance che ha vinto la serata nonostante dovesse battersi contro tre avversari.

La cosa peggiore è che gli elettori americani hanno avuto l’ennesima verifica che i media (una volta) mainstream sono incapaci di gestire in maniera equanime un dibattito elettorale. Fin troppo facile prevedere che, come successo qualche settimana fa alla ABC, anche la CBS pagherà caro questo errore in termini di ascolti, avvitandosi in una crisi che sembra senza fine.

Una vittoria forse decisiva?

Se finora abbiamo discusso di fatti, permetteteci di passare nel campo minato delle speculazioni e cercare di prevedere quale impatto potrà avere questa vittoria schiacciante in queste presidenziali. Nelle tante elezioni che ho seguito, i dibattiti tra i vicepresidenti sono sempre risultati del tutto ininfluenti (vi sfido a ricordare una sola battuta dello scontro tra Mike Pence e Kamala Harris di quattro anni fa senza andare su Google) ma le cose, stavolta, potrebbero essere diverse

Il compito principale di un candidato alla vicepresidenza rimane quello di aiutare il proprio running-mate in maniera concreta. Talvolta questo vuol dire mettere a disposizione la sua rete di portatori d’acqua in questo o in quello stato chiave, altre volte aiutandolo con certe industrie o, magari, nel convincere alcune fasce dell’elettorato. Il contrasto tra i due candidati è decisamente stridente: se JD Vance si conferma come perfetto surrogate di Trump, capace di proporre il messaggio base della campagna in maniera efficace e, forse, più palatabile agli indipendenti, Walz ripete buona parte degli errori della Harris, risultando talvolta una vera e propria liability.

Si capisce perché il team di Trump abbia deciso di affidarsi a Vance: inutile per il senatore andare sulla falsariga dell’ex presidente ed attaccare a testa bassa, molto meglio scegliere un atteggiamento più pacato e mostrare la faccia moderata della futura amministrazione. Il fatto che Vance abbia più volte ripetuto che “c’è molto da fare” e che sarà importante il contributo dei Democratici è un segnale piuttosto chiaro nei confronti dei tanti Reagan Democrats, che stanno considerando di abbandonare il partito dell’asinello.

Aggiungi il gran lavoro operato dagli altri surrogate Robert Kennedy Jr. e Tulsi Gabbard e si spiega come Trump stia facendo enormi passi avanti nell’elettorato working class. Ancora più importante il fatto che, ora che ha dato così buona prova di sé in diretta nazionale, sarà difficile continuare a dipingere JD Vance come un pericoloso estremista. Il tono, l’immagine, i sottili ammiccamenti alla telecamera saranno difficili da dimenticare e metteranno più di un dubbio a molti indipendenti.

Non è stata sicuramente una slam dunk, un colpo da KO, ma sicuramente l’America profonda e persino molti never Trumpers hanno gradito l’atteggiamento e la grazia di questo self made man capace di superare un’infanzia difficile per salire ai vertici della società americana. Una cosa è certa: in un’elezione così serrata, anche pochi punti in più potrebbero fare tutta la differenza del mondo.

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