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Videosorveglianza e commercio sleale, ecco le prime contromosse Usa-Uk

Gli allarmi di MI5 e FBI e le prime contromisure di Stati Uniti e Regno Unito ai tentativi di infiltrazione cinesi

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Che Pechino sia ormai riconosciuta come la maggiore minaccia alla stabilità mondiale non è certamente una novità, ma che a ribadirlo senza mezzi termini siano i direttori dei due corpi di controspionaggio interno britannico e americano – in presenza di una crisi di governo e nel pieno di una guerra nel cuore dell’Europa – dà sicuramente dimostrazione di quanto il problema sia non più eludibile e le soluzioni non più rinviabili.

Cosa hanno detto MI5 e FBI

Mercoledì 6 luglio, durante le ore concitate in cui su Downing Street piovevano a cascata lettere di dimissioni dei ministri del governo Johnson, a Thames House (quartier generale del MI5) Ken McCallum, direttore generale del Security Service, e il collega americano Christopher Wray, direttore del Federal Bureau of Investigations, hanno tenuto una conferenza congiunta davanti a un pubblico di funzionari e rappresentanti di aziende private e del mondo accademico.

Gli accordi di cooperazione economica sono il più grande veicolo di rischio su cui i direttori di MI5 ed FBI hanno posto l’accento. Chris Wray, avvertendo frontalmente gli imprenditori presenti al meeting, ha richiamato l’attenzione sul tema dei crescenti furti di proprietà industriale ad opera di Pechino attraverso operazioni di intelligence e cooptazione interna.

McCallum, il padrone di casa, ha puntualizzato come rispetto a cinque anni fa il numero di indagini condotte dal MI5 che vedono coinvolta la Repubblica Popolare, impegnata in pressanti ingerenze anzitutto di carattere economico, sia aumentato di sette volte, con la previsione di ulteriori aumenti nell’immediato futuro.

I rischi cyber

Un ruolo da protagonista in questo gioco, oltre all’economia, lo svolge ovviamente anche il cyber. E se forse sembra accantonato, nei Paesi dell’Anglosfera, l’incubo del 5G in mano a Huawei, molto c’è da fare ad esempio per estromettere davvero Pechino dall’avere occhi e orecchie sulla everyday life delle democrazie occidentali.

Contromosse in UK

La Gran Bretagna può fungere da perfetto esempio di come questo processo di infiltrazione cinese stia proseguendo e stia di contro facendo emergere una forte reazione politica affinché si attuino le dovute contromisure.

Non solo si ricorderà il recente scandalo (volutamente passato sotto silenzio dai media per lasciare tutto lo spazio al più succulento e fazioso racconto del partygate) che quest’inverno ha riguardato l’avvocato Christine Ching Kui Lee, spia del Partito comunista cinese infiltrata a Westminster in ambienti corbyniani, ma anche l’affaire Newport-Nexperia, e da ultimo il pressing trasversale di 67 tra deputati e pari del Regno su Boris Johnson affinché vieti la vendita e l’uso delle apparecchiature di sorveglianza “made in China”, Hikvision e Dahua, in tutto il Paese.

Quest’ultima richiesta, avanzata con un emendamento alla riforma della legge sugli appalti, pone al centro un tema altamente spinoso per l’amministrazione interna: ad oggi moltissimi enti pubblici britannici si servono di telecamere a circuito chiuso prodotte da queste due aziende.

Secondo Big Brother Watch, organizzazione indipendente no-profit che ha di recente pubblicato una indagine dal titolo “Who’s watching you? The dominance of Chinese state-owned CCTV in the UK”, al momento si troverebbero sotto gli occhi delle telecamere incriminate il 73 per cento dei city councils dell’intera nazione, il 57 per cento delle scuole secondarie in Inghilterra e sei enti su dieci del NHS, oltre a università e sedi di polizia.

L’iniziativa dei parlamentari britannici fa eco agli esiti di alcuni lavori portati avanti già da lungo tempo, come una indagine del luglio 2021 della Commissione Affari esteri della Camera dei Comuni – capitanata dal validissimo Tom Tugendhat, sanzionato un anno fa proprio da Pechino ed eliminato al terzo round nella corsa per la leadership dei Tories – che aveva rilevato l’esistenza di un pericoloso fil rouge tra alcune importanti aziende tecnologiche cinesi (tra cui, appunto, Hikvision e Dahua).

Nonché le violazioni dei diritti umani nella regione “autonoma” dello Xinjiang, nella quale – grazie alla dedizione di giornalisti e organizzazioni private e nonostante la latitanza e il servilismo dell’Alto Commissario (socialista) delle Nazioni Unite per i diritti umani – è stata dimostrata la presenza di campi di internamento (ufficialmente “centri di istruzione e formazione professionale”) in cui vengono rinchiusi e trattati con metodi disumani gli appartenenti alla minoranza musulmana turcofona degli uiguri e di altre minoranze etniche della regione.

Quello che si sta compiendo a danno degli uiguri è un vero e proprio genocidio: le torture, le sterilizzazioni forzate, gli aborti forzati, il lavoro forzato, le pratiche di lavaggio del cervello, le violenze sessuali, il prelievo e la commercializzazione illegale di organi e le altre orribili, documentate, sevizie portate avanti nei “campi di rieducazione” hanno fatto vertiginosamente crollare il tasso di natalità nei distretti a maggioranza uigura a ritmi terrificanti da un anno con l’altro (quasi il 60 per cento in meno tra il 2015 e il 2018, secondo le stesse statistiche del governo cinese).

La videosorveglianza cinese

Se l’avanzamento tecnologico cinese nell’ambito della videosorveglianza viene impiegato per monitorare questi giganteschi centri di detenzione (si aggira attorno ai 400 milioni di unità – stando a uno studio di Morgan Stanley – il numero di telecamere installate nei campi nel solo 2020), è naturale insospettirsi quando si assiste ad una insistente e pervicace propaganda da parte della Cina nei confronti del resto del mondo – proprio come avvenne in tempo di pandemia – ad adottare strumenti di riconoscimento e tracciamento per combattere il Covid-19.

L’utilizzo di questi “strumenti anti-pandemia per città sicure” veniva venduto da Pechino come un’opportunità per costruire moderne “smart city”, in tutto e per tutto conformate al modello della cosiddetta “soluzione cinese” per la lotta al Covid-19 (no vaccini efficaci, sì controllo sociale, con gli esiti che tutti conosciamo).

Lo sfruttamento degli uiguri

Ma legata al genocidio uiguro è anche una importante questione economica. Negli anni recenti, infatti, molte imprese occidentali hanno via via delocalizzato parte della loro produzione nello Xinjiang. Tra loro, diverse grandi aziende americane – tra cui Nike, National Basketball Association, Apple e Coca-Cola, solo per citare gli esempi più celebri – ormai fortemente dipendenti dalla produzione cinese.

Proprio all’inizio di luglio è entrato in vigore negli Stati Uniti lo Uyghur Forced Labor Prevention Act, frutto di un progetto di legge bipartisan, approvato un anno fa al Senato con l’unanimità dei voti e poi alla Camera dei Rappresentanti con un solo voto contrario (quello del deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie, libertario notoriamente non-interventista) ed infine firmato dal presidente Joe Biden alla vigilia di Natale.

Questa legge istituisce “la presunzione confutabile” che tutti i beni prodotti nello Xinjiang siano frutto dello sfruttamento della popolazione uigura, a meno che il commissario federale per le dogane e la protezione delle frontiere certifichi il contrario. La legge conferisce inoltre al presidente il potere di imporre sanzioni su ogni cittadino straniero che si impegni consapevolmente nel portare avanti queste pratiche di lavoro forzato, e soprattutto impone alle aziende che operano nella regione un onere di trasparenza nel dichiarare i loro rapporti con le autorità dello Xinjiang.

Il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio (anch’egli sanzionato dal regime cinese come il già citato collega britannico Tugendhat), padrino di questa legge, la ha definita “la più importante e impattante azione finora intrapresa dagli Stati Uniti per ritenere il Partito Comunista Cinese responsabile per il ricorso alla manodopera schiavile”.

Un’America che si prepara a contenere – se necessario anche militarmente – il Dragone nella regione dell’Asia-Pacifico, e che non perde giustamente occasione, attraverso le dichiarazioni del segretario di Stato Tony Blinken, per condannare le violazioni dei diritti umani in Cina, deve dimostrarsi conseguente con le proprie parole se ancora vuole imporsi nel mondo come autorevole superpotenza.

Contenimento economico

Una simile azione di contenimento economico avviata dagli Stati Uniti – che in Europa, per evidenti e meno evidenti ragioni, siamo ben lontani dal replicare per esplicita affermazione di qualche commissario di Bruxelles – avrà certamente un impatto sui livelli di produzione di queste aziende e anche sulle loro prestazioni in borsa, ma la sua necessità è indiscutibile.

È necessario che l’Occidente sappia accettare qualche sacrificio per difendere i propri valori e con essi la propria sicurezza, anche a tutela di quelle stesse grandi multinazionali che, annebbiate dal profitto, non si accorgono di come progressivamente vengano depredate del proprio know-how e dei propri segreti industriali.

E se ad incoraggiare governi ed imprese a stare all’erta sono anche i servizi segreti delle due più avanzate potenze occidentali – assieme, sul palco – significa che è arrivato il tempo di non commettere più errori.