Abbiamo parlato molte volte, su queste pagine, dell’incredibile potenza della comunicazione del web, una forza tale da influenzare le grandi scelte. Un processo irreversibile, legato alla ben precisa scelta, non completamente assennata, di tutto affidare a internet. Lo strabordante spettacolo di violenza bruta che la guerra tra Hamas e Israele riversa nelle nostre case è un fenomeno che ha molte probabilità di orientare l’opinione pubblica mondiale, come è giusto che sia, contro ogni forma di violenza.
Il punto debole
Ma proprio lo schierarsi contro “ogni forma” di violenza è il vero punto debole della questione, soprattutto quando si vadano a cercare gli atti di violenza passati di questa o quella nazione, regime, formazione militare che sia. Si rischia, infatti, di non concentrarsi abbastanza su precisi e documentati atti di crudele sopraffazione che accadono oggi, per il fatto di ben determinati gruppi di terroristi, magari con la debole scusante che, in passato, altre violenze sono state compiute da chi oggi le subisce.
In un mondo che possa definirsi civile, il rapporto tra azione e reazione deve essere chiaro ed incontrovertibile. L’immediatezza della reazione militare dell’aggredito è cosa ben diversa dalle pretese provocazioni passate che avrebbe subito l’aggressore. Se non si scolpisce nella pietra questo concetto, peraltro ripreso ampiamente dalla ponderosa legislazione del Diritto Umanitario dei Conflitti Armati, ci perde nei dannosi distinguo e nelle inutili elucubrazioni che non hanno mai fermato una guerra sul nascere, come ancora si spera possa accadere oggi negli orrendi massacri che avvengono in questi giorni in Israele e nella Striscia di Gaza.
È altresì necessario, anzi imprescindibile, separare gli scontri armati tra opposti eserciti o anche soltanto ben definite formazioni militari, l’una contro l’altra, dal massacro dei civili e dall’orrenda uccisione di bambini ed inermi non combattenti. Leggiamo e sentiamo troppe fesserie, perlopiù di chiaro ed inequivocabile stampo ideologico, che tenderebbero a ricondurre l’orrore, la cieca bestialità di cui siamo impotenti testimoni attraverso i nostri schermi, ad una dinamica di semplice reazione e controreazione che si sarebbe sviluppata negli anni nell’inguaribile dissidio tra ebrei e musulmani.
Due veri e propri diversi mondi che difficilmente potranno coesistere pacificamente, e non ha importanza, in questo momento, individuare quale parte sia più o meno disponibile ad un ipotetico dialogo, proprio nei giorni in cui si è superato ogni limite, che sembra riportarci all’epoca delle teste conficcate sulla punta delle lance.
Fine della civiltà
È l’intera civiltà ad essere battuta e obnubilata, nel totale diniego di ogni regola minima di umanità che dovrebbe, anche tra i combattenti, distinguerli dalle bestie, per non dire dai demoni. Se non dovessimo più dare peso all’inaccettabile, ossia se dovesse prevalere il concetto della anche soltanto parziale accettazione di certi metodi brutali e contrari anche all’ultimo barlume di umanità, come quello di prendersela coi bambini in braccio alle loro madri, potremmo dire che la civiltà stessa, forgiatasi nei millenni per l’opera di tante persone di buona volontà, sia giunta alla fine del suo viaggio nella storia.
Se volessimo ragionare in termini prettamente giuridici, ma non è questo il momento dei latinorum, dovremmo riaffermare il sacrosanto principio dell’individualità della responsabile penale, per cui solo tra coloro che compiono in senso stretto tali eccidi, ai quali si aggiungano i mandanti ed i sostenitori di tali gruppi armati, dovremmo concludere che l’immane tragedia che si sta dipanando sotto i nostri occhi è opera di poche migliaia di persone, un numero insignificante rispetto all’intera umanità.
Se generalizzare e suddividere a pioggia le responsabilità non può appartenere alla cultura giuridica di un Paese civile, è altrettanto vero che, quando una parte in conflitto dica apertamente di voler annientare il nemico in nome del suo Dio e siano moltissimi nel mondo a condividere tali motivazioni, è del tutto inutile parlare ancora di rivendicazioni di territori e del riconoscimento o meno delle diverse statualità.
Ciò che maggiormente preoccupa di questa guerra è proprio quello che sentiamo dire nei proclami dei capi religiosi e militari, assolutamente condiviso da un numero considerevole di sostenitori nelle piazze di tutto il mondo. Non v’è mistero alcuno: vogliono la Guerra Santa sopra ogni altra rivendicazione.
Diffusione delle informazioni
Vi è un altro elemento da non perdere di vista. Fino agli ultimi conflitti mondiali in senso stretto, la guerra la facevano le truppe contrapposte, con un limitato apporto combattente di formazioni paramilitari composti dalla resistenza locale. Anche aggiungendo ai belligeranti la categorie delle opposte strutture di intelligence, comunque assimilabili alle forze armate vere e proprie, il parere, il sentimento, le reazioni delle popolazioni stavano a zero, impotenti spettatori degli accadimenti che passavano sopra le loro teste.
Oggi le cose stanno ben diversamente. La diffusione, ormai incontrollabile, delle informazioni di qualsiasi genere a livello planetario, che ormai sfugge completamente alla censura dei vari Stati (ebbene sì: la censura esiste ancora, nel terzo millennio) ha sparigliato le carte sul tavolo. La conoscenza degli accadimenti in real time è talmente immediata e polverizzata dal rendere l’effetto sorpresa limitato a poche ore, mentre, fino a non troppi anni fa, si poteva tranquillamente supporre che un colpo di mano militare avrebbe potuto sfruttare l’effetto sorpresa per molti giorni.
Anche ammettendo la sostanziale impreparazione dell’intelligence israeliana ad un colpo di mano che Hamas dice oggi di aver predisposto nei minimi particolari per anni, l’effetto sorpresa è, tutto sommato, soltanto una componente di qualcosa che da anni ardeva sotto le ceneri e adesso bisogna spegnere quell’incendio prima che si estenda al mondo intero.
Tralasciando le tutt’altro che inedite trombe della propaganda di parte, fatta ancora di luoghi comuni, vanterie, riferimenti all’ineluttabile cacciata dei cattivi, resta il fatto che, per poter soltanto ipotizzare un esito ben preciso di una guerra, altro non resta da fare che seguire quanto accade ogni giorno sul campo di battaglia, esattamente come si faceva dalle guerre puniche in avanti. Tutto è possibile.
Nel complesso ed incomprensibile gioco delle alleanze interstatuali, della sempre più fragile diplomazia mondiale, della assoluta ininfluenza dell’Onu, al quale si aggiungano le variegate posizioni religiose di una metà del mondo islamico, in cui la Guerra Santa è ancora il fattore determinante che spinge a fare guerra ad altri popoli, tutto si complica all’inverosimile, con buona pace degli analisti più accreditati.
L’assedio di Gaza
Ciò premesso, non sembra irrilevante sottolineare come l’assedio di Gaza, sia pure con tecniche molto sofisticate, sembri, almeno ad oggi, assai somigliante agli assedi di antica memoria, ove si circondava il nemico e lo si privava delle risorse vitali per indurlo alla resa. Non esiste altra forma, più moderna, di assedio. Quello è e tale rimarrà per sempre.
Se l’assedio della striscia di Gaza porterà alla resa dei guerriglieri di Hamas lo vedremo, così come potremo constatare se, invece, si farà ricorso alla seconda soluzione, anche quella storica, ossia quella della totale distruzione del territorio nemico.
Che possa, invece, prevalere la poco efficace soluzione del ricorso alle forze internazionali d’interposizione, oppure dei cessate-il-fuoco condivisi e durevoli appare oggi poco probabile. Troppa la tensione accumulatasi nei decenni e troppo forte la motivazione religiosa.
Chiudo con una nota di speranza. Mentre sto scrivendo questo articolo, ho, su un altro pc, lo streaming video di una emittente britannica dai tetti di Gaza. Un gallo canta, fra un’un esplosione di razzi e l’altra. Almeno per gli animali, la vita sembra continuare come sempre, nonostante tutto. Passerà anche questa, ma a quale prezzo di vite umane?