Il prossimo 16 ottobre inizierà il XX congresso del Partito comunista cinese. Si tratta di un evento importante, destinato a delineare le linee di sviluppo del colosso asiatico.
Il culto della personalità
Alcuni fatti sono già chiari. Da tempo, infatti, Xi Jinping sta introducendo un “culto della personalità” simile a quello in vigore con Mao Zedong. Le sue immagini, proprio come quelle del predecessore, diventano sempre più eteree e spesso circondate da un’aureola.
È inoltre uscita un’opera in tre volumi tradotta, proprio come quelle di Mao, in più di 40 lingue, e pubblicata in Italia da Giunti. Interessante notare che, per l’appunto, “il pensiero di Xi” è ora materia d’insegnamento obbligatorio nelle scuole, e questo fatto rammenta da vicino il culto di Mao all’apice del suo potere.
Miliardari al guinzaglio
Non è tutto. La leadership cinese pare intenzionata, seguendo sempre le indicazioni di Xi Jinping, a modificare la struttura dello Stato togliendo potere ai tanti miliardari emersi nella Repubblica Popolare in questi ultimi decenni. Non tutti lo sanno, ma nella classifica mondiale dei tycoons la Cina tallonava da vicino, fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti. Secondo l’ultima rilevazione, infatti, i miliardari americani sono 724, quelli cinesi 626.
Una situazione impensabile ai tempi di Mao Zedong, quando la Cina Popolare era già un gigante demografico (e forse politico), ma assai povera dal punto di vista economico.
Com’è noto, la grande svolta avvenne ai tempi di Deng Xiaoping il quale, dopo la morte del Grande Timoniere e la fine della “Rivoluzione culturale”, spronò apertamente i concittadini ad accumulare ricchezza mettendo in soffitta i pregiudizi ideologici marxisti.
Tuttavia, il Partito (o, ancor meglio, il Partito-Stato) non ha mai rinunciato alla funzione di controllo, anche perché il potere è interamente nelle sue mani, senza residui di alcun tipo. E non bisogna scordare che gli stessi miliardari hanno tutti la tessera del Partito in tasca.
Ora si ha l’impressione – per non dire la certezza – che con la presidenza di Xi Jinping le lancette dell’orologio stiano tornando indietro. La leadership comunista, in altri termini, è fortemente preoccupata dall’eccessiva ricchezza dei tanti plurimiliardari ora presenti nel territorio, e teme che essi la usino per condizionare il Partito o, addirittura, per imporgli strategie non gradite.
Di qui i limiti e paletti che Pechino sta progressivamente imponendo ai vari tycoons. La strada è stata aperta con l’emarginazione pressoché completa di Jack Ma, fondatore del gigante dell’e-commerce Alibaba, reo di aver criticato in pubblico il sistema bancario e creditizio della Repubblica Popolare, da lui definito “primitivo”.
Nonostante fosse considerato assai vicino a Xi e al suo gruppo dirigente, Jack Ma ha visto ridimensionare in breve tempo le sue aziende subendo perdite molto ingenti in Borsa. Poi è toccato, con un crescendo impressionate, a molti altri super ricchi i quali, però, avendo in mente la punizione inflitta al loro collega, si sono subito adeguati alle nuove direttive del partito.
Il fatto è che imprenditori dinamici come Jack Ma hanno idee innovative e producono ricchezza, ma questo non sembra impressionare più di tanto il vertice del Partito.
Redistribuzione del reddito
È ormai chiaro che Xi Jinping punta a una sorta di redistribuzione del reddito diffondendo lo slogan della “prosperità condivisa”, e imponendo ai miliardari del Dragone di mettere a disposizione delle fasce svantaggiate della popolazione una parte delle loro fortune. Molti di essi, obbedendo subito alle direttive, hanno quindi fatto confluire somme ingenti in fondi da loro stessi creati in brevissimo tempo.
Tali somme dovrebbero essere destinate a migliorare il welfare nazionale, e a colmare almeno in parte il divario economico che separa con forza le grandi metropoli, sempre più simili a quelle occidentali, dalle campagne rimaste in condizioni di grave arretratezza.
Si tratta di un progetto ambizioso sulla cui rapida realizzazione Pechino sta puntando moltissimo. Il nuovo piano quinquennale, per esempio, si baserà in gran parte proprio su di esso.
Occorre tuttavia notare due fatti. Agendo in questo modo, Xi e il suo gruppo dirigente vogliono dimostrare che la Repubblica Popolare è tuttora un Paese comunista. Caratteristica che media e politici occidentali contestavano da tempo. In secondo luogo, è in atto una grande campagna mediatica per convincere i cittadini che il merito della suddetta redistribuzione del reddito è merito esclusivo del partito.
Con questo la dirigenza intende mantenere la pace e la coesione sociale, che ha dato segni di crisi a causa delle conseguenze della pandemia di Covid-19. Xi si era vantato di aver sconfitto definitivamente il virus, che invece circola ancora come dimostrano i continui lockdown totali che paralizzano intere città (ultimo caso quello di Shenzhen, fulcro dell’innovazione tecnologica cinese).
La politica del “Covid zero” è una delle cause principali del rallentamento del Pil che, infatti, comincia a pesare anche in Cina.
Anche se la mancanza di trasparenza nella diffusione delle notizie è assoluta, non sembra che Xi incontrerà ostacoli nell’ottenere un inedito terzo mandato, e molti ipotizzano che il suo sogno sia quello di diventare “presidente a vita”.
Il riposizionamento dell’India
Del resto è riuscito a eliminare tutti gli oppositori. In politica estera le difficoltà sperimentate da Putin in Ucraina potrebbero addirittura giovargli, rendendo la Federazione Russa sempre più dipendente dalla Cina (cosa che molti analisti avevano previsto).
Ha destato inoltre sorpresa l’annuncio del Ministero degli esteri indiano, poi confermato da Pechino, che le truppe indiane e cinesi si ritireranno entro il 12 settembre dall’area contesa di Gogra-Hot Springs. L’area si trova nella regione indiana del Ladakh, ma Pechino l’ha sempre rivendicata come propria.
Il territorio è situato nell’Himalaya occidentale, e da anni è teatro di scontri sanguinosi tra gli eserciti dei due Paesi. Scontri combattuti all’arma bianca, spesso con bastoni e mazze ferrate, per la proibizione di utilizzare armi da fuoco.
Importante notare che la notizia indica un probabile riposizionamento dell’India nello scenario internazionale. Sin dai tempi di Nehru e Mao Zedong i due Paesi sono stati avversari, con gli indiani sempre vicini ai russi per contrastare il potente vicino.
Ora il premier nazionalista indù Narendra Modi sta cambiando strategia. Il lungo stato di semi-guerra con Pechino gli sembra meno importante della possibilità di isolare l’Occidente mediante il rafforzamento dell’alleanza BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), strategia condivisa da Vladimir Putin e Xi Jinping.
È pur vero che, contemporaneamente, la Federazione Indiana fa parte dell’alleanza informale “Quad” (Dialogo quadrilaterale di sicurezza) assieme a Stati Uniti, Giappone e Australia, fondata nel 2017 per frenare l’espansionismo cinese nell’area dell’Indo-Pacifico.
Tuttavia, i rapporti non ottimali con Joe Biden (mentre erano buoni quelli con Donald Trump), e la diffusa percezione dell’attuale debolezza occidentale, spingono il premier indiano a battere altre strade.
Il fatto che le due nazioni più popolose del mondo raggiungano un accordo per far cessare ostilità che durano da decenni è di per sé molto significativo, e conferma il tentativo di passare a un ordine mondiale diverso dal precedente, che era sostanzialmente a guida americana.
Una potenza comunista
Dunque Xi, nonostante i molti problemi interni, al congresso potrà sbandierare i suoi successi in politica estera, dimostrando di aver reso la Repubblica Popolare ancora più centrale di quanto già non fosse.
È il trionfo dell’ideologia sull’economia. Mettendo da parte l’approccio pragmatico inaugurato da Deng Xiaoping negli anni ’70 del secolo scorso, la Cina torna ad essere una potenza comunista a tutti gli effetti, in grado di diventare un punto di riferimento per le nazioni sottosviluppate del Sud del mondo.