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Aborto e armi

Aborto e armi, due sentenze che scuotono l’ordine (e la tracotanza) liberal

Due vittorie personali di Trump, reazioni isteriche dei progressisti. Non abolito il “diritto” ad abortire, la materia restituita agli Stati e al consenso democratico

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La Corte Suprema non ha dichiarato incostituzionale l’aborto, ma correggendo un suo storico errore ha restituito il tema al popolo: non essendo un diritto costituzionale, spetta ai singoli Stati regolare la materia

Un famoso aneddoto racconta che nell’estate del 1787, a margine dei lavori della convenzione costituzionale di Filadelfia, Elizabeth Willing Powel – un’autorevole esponente della società dell’epoca, anche se esclusa, come tutte le donne, dai lavori costituenti – si rivolse a Benjamin Franklin per sapere quale forma costituzionale fosse stata scelta: “Dottore, che cosa avremo allora? Una repubblica o una monarchia?”. Franklin rispose fulmineo: “Una repubblica, se sarete in grado di mantenerla”.

Una nuova prova per le istituzioni Usa

Nella storia degli Stati Uniti, si sono presentati molti momenti di crisi che hanno reso questa citazione di Franklin emblematica. Senza andare troppo indietro nel tempo – e senza dimenticare la sanguinosa Guerra Civile combattuta dal 1861 al 1865 tra Stati del Nord e Stati del Sud – ma limitandoci all’attuale frangente storico, un momento di crisi è stato sicuramente il 6 gennaio 2021, quando un’orda di scalmanati sostenitori di Donald Trump è entrata nel Campidoglio per protestare contro l’esito delle elezioni presidenziali.

Le istituzioni Usa hanno superato anche quel complicato passaggio, ma in queste ore si trovano di fronte a una nuova prova.

Se c’è un argomento che separa gli Stati Uniti così tanto dall’Europa, al punto da renderli quasi incomprensibili se li si osserva da questa sponda dell’Atlantico, è il tema del possesso e del porto d’armi. E se c’è un argomento che lacera, al suo interno e a più livelli, la politica americana, è quello dell’aborto.

Su entrambi i temi, nel giro di poche ore, è intervenuta la Corte Suprema degli Stati Uniti, con due sentenze che hanno fatto schizzare il livello del dibattito oltre i livelli di guardia.

Prima sentenza: il diritto di portare armi

Era passato meno di un mese dal tremendo massacro della scuola elementare di Uvalde, Texas, e al Senato era in dirittura d’arrivo una legge volta ad introdurre alcune restrizioni in materia di acquisto delle armi. Si tratta, in effetti, di restrizioni timide, ma su di esse il presidente Biden contava per registrare, finalmente, una “vittoria” politica di cui aveva sempre più disperatamente bisogno.

Tale piccolo passo in avanti in materia di controllo delle armi è stato, però, oscurato da una sentenza dell’altro ieri della Corte Suprema, che a maggioranza (i sei giudici “conservatori” hanno votato a favore, i tre giudici “progressisti” hanno votato contro), ha dichiarato incostituzionale una legge dello Stato di New York, in vigore da più di un secolo, che consentiva il porto d’armi in pubblico solo in presenza di un giustificato motivo (“proper clause”).

Nel fare ciò, la Corte Suprema, per la prima volta, ha affermato che il Secondo Emendamento della Costituzione Federale – o meglio, l’interpretazione di tale norma che nel tempo si è consolidata al di là del suo stretto tenore letterale – tutela non solo il diritto di possedere armi, ma anche quello di portarle nei luoghi pubblici per difesa personale.

Secondo la Corte, il governo può ovviamente limitare il porto d’armi in luoghi “sensibili” (es., scuole ed edifici governativi), ma la nozione di luogo “sensibile” non può essere estesa, genericamente, a tutti i luoghi pubblici.

I giudici di orientamento liberal hanno manifestato il loro fermo dissenso. Basti citare l’incipit dell’opinione dissenziente del giudice Breyer (progressista), che ricorda che nel 2020, 45.222 americani sono stati uccisi da armi da fuoco. Dall’inizio del 2022, si sono registrate 277 stragi con armi da fuoco, in media più di una al giorno. Ma secondo il giudice Breyer, il problema del porto d’armi dovrebbe essere risolto dal legislatore, non dai giudici.

In base alle prime analisi, la sentenza può avere effetto in almeno altri sei Stati, dove sono in vigore leggi analoghe a quella dello Stato di New York, che è stata dichiarata incostituzionale. Soprattutto, la sentenza della Corte Suprema – che segue una tabella di marcia ben diversa da quella del Congresso – probabilmente scritta già prima della strage di Uvalde, ha fatto passare in secondo piano la timida legge approvata nelle stesse ore al Senato.

La reazione isterica dei progressisti

Le reazioni delle istituzioni sono state immediate, e degne di nota. Il governatore dello Stato di New York e il sindaco della città di New York – entrambi Democratici – hanno detto che utilizzeranno ogni mezzo giuridico (quale?) per opporsi agli effetti della sentenza.

Ma a spingersi oltre ogni limite di ragionevolezza sono stati alcuni commentatori di orientamento progressista, con proposte che, ove attuate, minerebbero alle fondamenta la stabilità della federazione.

L’opinionista Keith Olbermann ha addirittura proposto di considerare “nulla” la sentenza della Corte Suprema. Cioè di ignorarla. Non c’è che dire, si tratta di un bel passo avanti rispetto ai tempi in cui i progressisti, durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, si “limitavano” a proporre di modificare le regole del gioco in materia di composizione della Corte, per consentire a Biden, in caso di elezione, di integrarla con un congruo numero di giudici in modo da assicurare una maggioranza progressista.

Ma si tratta anche di un bel cortocircuito, se si considera che non è la prima volta che la teoria della “nullificazione” si presenta nella storia americana. Fu propugnata, nel corso dell’Ottocento, dagli Stati del Sud, ed ha creato il retroterra giuridico che ha condotto alla Guerra Civile.

L’isteria dei commentatori progressisti non ha però fatto a tempo ad esplodere appieno, perché, il giorno dopo, la Corte Suprema ha annunciato la propria decisione – tanto clamorosa quanto attesa – in materia di aborto.

Seconda sentenza: l’aborto

I media italiani hanno dimostrato, ancora una volta, tutti i loro limiti nel fare informazione su ciò che riguarda l’ordinamento statunitense. La Corte Suprema non ha “abolito” il diritto di abortire; ha detto, molto semplicemente, che spetta ai singoli Stati regolare la materia.

In sintesi, la Corte riconosce che l’aborto rappresenta un profondo dilemma morale. Ma la Costituzione non vieta ai cittadini dei singoli Stati di regolare o proibire l’aborto. Le sentenze Roe e Casey, con cui, in precedenza, la Corte si era dichiarata titolare dell’autorità di regolare la materia, sono andate oltre quanto stabilito dalla Costituzione. La Corte Suprema ha deciso di annullare tali precedenti, e di restituire tale autorità ai legislatori dei singoli Stati.

Viene così eliminato un orientamento giurisprudenziale ritenuto dai suoi critici una evidente forzatura – e pertanto fragile – in quanto la Costituzione federale non dice nulla sull’aborto, né sul diritto di privacy che ne costituirebbe il fondamento.

L’effetto della sentenza è che la materia dell’aborto verrà regolata in maniera differenziata nei 50 Stati dell’Unione. Rimarrà, ad esempio, in vigore la legge del Mississippi – che è stata il casus belli – che consente l’aborto fino alla quindicesima settimana, e che è pertanto più permissiva della legge italiana (che lo consente nei primi novanta giorni di gestazione, poco meno di tredici settimane).

Il variegato panorama legislativo che si viene così a creare spiega perché l’aborto è, negli Stati Uniti, argomento così polarizzante: perché non attiene solo ai diritti individuali, ma anche ai rapporti di potere tra Stato federale e Stati membri.

Intimidazioni e minacce

La Corte Suprema non si è lasciata intimorire dalle pressioni istituzionali a cui è stata sottoposta dopo che, nelle scorse settimane, una “manina” aveva rivelato al mondo una bozza della sentenza, con una clamorosa fuga di notizie. I giudici conservatori non si sono fatti intimidire dalle inaudite proteste davanti alle loro abitazioni, inscenate dagli attivisti abortisti, o dalle minacce di morte (all’inizio di giugno un ventiseienne californiano è stato arrestato, armato, nei pressi dell’abitazione del giudice Kavanaugh).

Bannare Trump non è bastato

Le reazioni dei Democratici alla sentenza “shock” sono state immediate. La beniamina dell’estrema sinistra, Alexandria Ocasio-Cortez ha incitato alla protesta nelle strade contro la decisione della Corte Suprema, definendola – sic et simpliciter – “illegittima”. Reazioni estreme, per ora solo a parole, che tradiscono la disperazione che sta montando nel campo progressista.

I Democratici pensavano che avrebbero risolto tutti i loro problemi togliendo di mezzo Trump. Pensavano che, per archiviarlo, sarebbe stato sufficiente sfrattarlo dalla Casa Bianca con le elezioni, bandirlo dai social media con la collaborazione di Big Tech, e metterlo sotto scacco giudiziario con la faziosa commissione d’inchiesta sull’”assalto” al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Confidavano che ciò sarebbe bastato a ridurlo ad incidente di percorso della storia, a parentesi eccentrica e sgradita nella parabola politica degli Stati Uniti, destinata al dimenticatoio.

La realtà è ben diversa. L’eredità di Trump è viva e si presenta sotto forma di due sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, che sono intervenute senza sconti su due nervi scoperti della politica e della società americana: il controllo delle armi e l’aborto.

I giudici di Trump

Trump lo aveva promesso sin dalla campagna elettorale del 2016: se fosse stato eletto, e si fosse presentata l’occasione, avrebbe nominato, come giudici per la Corte Suprema, conservatori “a tutto tondo”. Ha mantenuto la promessa, nominando tre giudici che, seppur con diverse sfumature e gradazioni, corrispondono al profilo: Gorsuch, Kavanaugh, Coney Barrett.

Ne risulta che la Corte è, almeno sulla carta, a salda maggioranza conservatrice (6 contro 3), e salvo sorprese, considerando che si tratta di nomine a vita, resterà così per anni. E non è aspetto limitato alla suprema magistratura federale. Trump, durante la sua presidenza, ha sfruttato in maniera efficace tutte le occasioni che ha avuto per nominare giudici federali conservatori, i quali pure, anche nei gradi inferiori, restano in carica a vita.

Il messaggio politico

Sfrattato dalla Casa Bianca; bandito dai social media, al punto da doverne creare uno proprio; bersagliato dalle inchieste giudiziarie, tuttavia Trump ha continuato a plasmare il Partito Repubblicano a propria immagine e somiglianza dal suo buen retiro in Florida. L’ex presidente può intestarsi le due sentenze della Corte Suprema come personali vittorie politiche, nella misura in cui sono state determinate da tre giudici da lui nominati.

Il messaggio è efficace perché semplice: quando si vota per un presidente che sia un repubblicano “vero” (come Trump), si vince. Ne risulta rafforzato l’invito, rivolto agli elettori conservatori, a votare, alle elezioni di medio termine di novembre, per candidati che siano, anch’essi, Repubblicani “veri” – ovvero sostenitori di Trump, e da quest’ultimo appoggiati – e non RINOs (“Republicans in name only”, Repubblicani solo di nome) ovvero esponenti della residua frangia, piuttosto malmessa, di suoi oppositori interni.

La frustrazione dei Democratici

A fronte di ciò, i Democratici devono fare i conti, invece, con il tasso di gradimento del presidente Biden a livello rasoterra, per mille motivi che vanno dalla politica estera all’economia, al punto che alcuni alleati già tentano di ridurlo, anzitempo, ad ”anatra zoppa” (David Axelrod, autorevole consigliere di Obama, ha dichiarato che Biden sarà troppo vecchio per candidarsi per un secondo mandato).

Stando ai sondaggi – ovviamente da prendere con le molle – alle elezioni di medio termine vi è il rischio che i Repubblicani prendano il controllo del Congresso, o almeno del Senato, e questo rappresenterebbe la fine per l’agenda dell’amministrazione Biden.

Soprattutto, ne emerge una sensazione di impotenza: i Democratici sapevano che stava arrivando la sentenza sull’aborto, ma, pur avendo il presidente e il controllo del Congresso (anche se risicato al Senato) non sono riusciti a fare nulla di concreto, a parte urlare.

Da questa sensazione di debolezza, traggono forza le frange progressiste più estreme, rappresentate da coloro che vogliono portare lo scontro nelle strade, fuori dalle istituzioni e, anzi, contro di esse.

Si prospetta, quindi, un’estate torrida dal punto di vista politico, ed è in questo contesto che risuona, con rinnovata attualità, il monito di Benjamin Franklin ai cittadini americani. A cui i Padri Fondatori hanno consegnato una repubblica, ma anche il complicato compito di mantenerla.

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