Aborto

Aborto, ecco perché tra i due estremi la virtù sta nel basso profilo

Soluzioni estreme inapplicabili, preferibile che sia la politica che i giudici adottino un “basso profilo”. L’impostazione empirica del giudice Roberts

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La recente sentenza della Corte Suprema americana nella causa che opponeva T. Dobbs, funzionario dello Stato del Mississippi, all’organizzazione no-profit di tutela della salute delle donne della città di Jackson: Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization 597 U. S. (2022), ha acceso un mare di polemiche (spesso esagerate, e come accade oggi dirette soprattutto a svilire moralmente chi la pensa diversamente) su due temi che invece meriterebbero un dibattito molto più pacato e approfondito, e che comunque si prestano a qualche breve considerazione.

Due temi da approfondire

Il primo tema riguarda ovviamente la materia oggetto della causa, l’interruzione volontaria della gravidanza, una materia che da secoli è oggetto di riflessione nell’ambito del pensiero occidentale da parte di giuristi e studiosi di morale, religiosi o atei, e che si concentra ovviamente sul rapporto tra il diritto delle donne di gestire la propria autonomia personale fisica e morale, e il diritto del potere pubblico di tutelare la vita in formazione.

Il secondo, non meno importante riguarda invece chi debba essere competente a decidere su questo conflitto tra diritti, cioè a stabilire dove finisce la libertà delle donne e dove comincia il potere dei rappresentanti della comunità di intervenire a tutela dei nascituri.

Nell’epoca contemporanea i due problemi hanno assunto una impostazione particolare: da un lato (riguardo al secondo di essi) è venuta meno la competenza della morale ecclesiastica che indicava al potere secolare i criteri di azione, per cui la risoluzione del contrasto tra le due posizioni è diventata di competenza sia del diritto che della politica, dando luogo ad una contrapposizione istituzionale spesso molto complessa.

Dall’altro (riguardo al primo) le opposte posizioni, a favore delle donne o a favore della tutela dei nascituri, si sono fatte sempre più estreme tendendo, o ad ampliare oltre misura la libertà di decisione delle donne (tesi cosiddette pro-scelta, pro-choice) o a ridurle quasi a zero (tesi pro-vita,  pro-life), con il che si è persa la posizione spesso graduata e intermedia che si era formata nel diritto medievale e nella coeva morale cristiana, che portava a valutare in maniera diversa l’aborto nelle differenti fasi della gravidanza e a condannarlo come peccato grave (e come crimine) solo se avvenuto oltre un certo limite di tempo.

I due problemi sono ovviamente correlati: in seguito all’impostazione in termini “assoluti” della contrapposizione tra le tesi opposte, si è affermata (grossomodo a partire dalla fine del XVIII secolo) la tendenza a disciplinare in maniera per così dire “unilaterale” l’interruzione della gravidanza, tenendo conto solo di uno dei due diritti in conflitto.

Dall’800 agli anni ’60

Così, nel corso dell’800 ad esempio la legislazione americana (ma il discorso vale per tutti i Paesi occidentali), con il consenso delle Corti ha esteso sempre più la criminalizzazione dell’aborto, fino a proibirlo sotto pena di sanzioni penali sin dall’inizio della gestazione: in questa fase il diritto e la politica hanno proceduto di comune accordo nel senso “restrittivo” della libertà di scelta.

La tendenza si è rovesciata con la rivoluzione dei costumi degli anni ’60 del secolo scorso e in conseguenza di ciò (prima negli Stati Uniti poi in tutto il mondo occidentale), da un lato è stata enormemente ampliata la libertà delle donne a scapito dalla tutela della vita dei nascituri, e dall’altro il diritto ha preso decisamente il sopravvento sulla politica, assumendosi il compito (e arrogandosi la competenza) di regolare in prima persona le modalità di interruzione della gravidanza, fissandone modalità e limiti.

La sentenza Roe v. Wade

Negli Stati Uniti, com’è noto, questa tendenza si è incarnata nella sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade del 1973, emanata quando ancora trenta stati dell’Unione punivano penalmente l’aborto in ogni fase della gestazione.

Con questa decisione la Corte non solo aveva previsto termini molto ampi per l’esercizio della libertà di abortire, sempre ammessa prima del sesto mese di gravidanza (essendo legata al concetto di “capacità vitale autonoma” del feto), ma aveva dettato in maniera dettagliata la disciplina, riferita sia alle libertà delle donne sia ai possibili interventi dei poteri pubblici, relativamente alle diverse fasi della gestazione, compiendo un’opera più simile a quella di un legislatore che a quella di un giudice.

La Corte aveva giustificato la sua decisione considerando la libertà di abortire (negli ampi limiti indicati) come compresa implicitamente tra le “libertà” che il XIV emendamento alla Costituzione americana impone agli stati dell’Unione di rispettare e tutelare.

La sentenza Roe, in parte integrata nelle sue prescrizioni dalla sentenza della causa Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey del 1992, aveva fatto stato sino a pochi giorni fa, segnando quello che per molti era un progresso irreversibile nella tutela dei diritti umani, mentre per altri era una degenerazione frutto del soggettivismo dei valori sposato dalle élite (non solo giudiziarie) occidentali.

La sentenza Dobbs

La sentenza Dobbs ha posto fine a questa evoluzione. Con una decisione ardita, ma non inusuale nel diritto americano (nel quale il principio dello stare decisis, cioè di “guardare ai precedenti” non comporta una adesione automatica agli stessi, ma una loro ponderata valutazione) ha “abrogato” la sentenza Roe, privandola del suo valore di guida giuridica per le Corti inferiori, e in tal modo ha profondamente modificato la disciplina dell’interruzione della gravidanza oltreoceano.

Sia per quanto concerne il contenuto concreto del “diritto alla scelta” delle donne che per quanto concerne la competenza a decidere il conflitto tra lo stesso e il “diritto alla vita”, tutelato dalle norme statali, come quella del Mississippi, che pone il limite temporale alla libertà di abortire in termini più restrittivi di quelli della sentenza Roe, anche se per esempio in termini più permissivi rispetto alla legislazione italiana.

Nel prendere questa decisione, la Corte ha rovesciato completamente quanto stabilito dalla sentenza Roe, ma paradossalmente, ne ha condiviso l’impostazione radicale (sia pure di segno diametralmente opposto), rinunciando ad un approccio più moderato alla materia.

Potere restituito al popolo

L’opinione di maggioranza, redatta dal giudice Alito e sostenuta da cinque dei nove giudici della Corte, afferma che la sentenza Roe, nel volere dettare una disciplina dettagliata dell’aborto nelle diverse fasi della gravidanza si era arrogata un compito che spetta ai rappresentanti del popolo democraticamente eletti (cioè ai parlamenti) e non ai giudici e che nell’abrogarla non si fa altro che restituire al popolo un potere che gli spetta, “usurpato” per così dire dai funzionari giudiziari.

In questa affermazione c’è molto di vero: la tendenza nel recente passato della Corte Suprema (in composizioni di orientamento progressista, precedenti a quella attuale di orientamento conservatore) a regolare in prima persona molti aspetti della vita personale e sociale in nome di un progresso giuridico tanto dogmatico quanto poco rispettoso delle tesi altrui, ha portato a risultati decisamente criticabili, e in questo senso la decisione della maggioranza in parte riequilibra la situazione, ma nel farlo va in parte oltre il segno.

Da una Corte che, in materia di aborto, si sostituiva alla politica si passa infatti ad una Corte che in sostanza si disinteressa della politica, rinunciando a quella funzione di controllo dialettico e di verifica delle decisioni dei parlamenti, che da sempre è propria dei sistemi a potere limitato quali quelli anglosassoni (e quale quello americano in particolare).

La tutela di diritti impliciti

Da questo punto di vista, non si possono non condividere le osservazioni contenute nell’opinione dissenziente (peraltro in alcuni punti anch’esse molto radicali) scritta dai giudici Breyer, Sotomayor e Kagan che criticano la maggioranza per avere escluso la libertà di abortire dai diritti tutelati dal XIV emendamento perché non esplicitamente prevista.

La tutela dei diritti impliciti (non previsti ma ragionevolmente derivanti da una norma esplicita o da un principio riconosciuto) è vecchia come il mondo: era tipica del diritto romano antico (grazie all’attività dei pretori), del diritto medievale, nonché del common law inglese, una parte importate del quale era rappresentata dalla “equità” (equity) che consentiva la protezione dei diritti non espressamente indicati nelle norme: rinunciare a priori alla loro tutela è una cosa, a mio parere, decisamente errata.

Però, tutelare un diritto da parte dei giudici (in particolare da parte dei giudici americani) non necessariamente equivale a stabilirne il contenuto in prima persona, ma consiste essenzialmente nel valutare la correttezza delle decisioni altrui, innanzi tutto ovviamente la correttezza delle decisioni e delle norme emanate dal potere pubblico (anche legislativo).

Fine giurista oltre che grande pensatore politico, Montesquieu affermava che il potere giudiziario deve essere “privo di volontà propria” perché il suo compito è un compito di giudizio e consiste solo nella valutazione dell’operato altrui.

La sentenza della causa Roe, e ancora più quella della causa Casey, si proponevano di stabilire la disciplina “definitiva” dell’interruzione della gravidanza negli Stati Uniti; la sentenza della causa Dobbs le ha smentite, ma con tutto il rispetto si può ragionevolmente dubitare che sarà quest’ultima a dire la parola decisiva.

L’opinione del giudice Roberts

Forse potrebbe essere utile un’impostazione empirica del rapporto tra diritto e politica nella materia dell’interruzione della gravidanza, che costituisce uno dei temi più divisivi nella società americana e in tutte le società occidentali.

Una impostazione ad esempio quale quella espressa nell’ambito della sentenza Dobbs dal presidente della Corte John G. Roberts nella sua opinione concorrente nel solo giudizio, con la quale ha aderito alla decisione di considerare conforme alla Costituzione la legge del Mississippi, ma per motivi diversi da quelli enunciati dai cinque giudici di maggioranza, ritenendo cioè la norma legittima in quanto sufficientemente rispettosa del diritto di scelta delle donne.

Secondo il presidente della Corte, al potere legislativo va riconosciuta la competenza a disciplinare in dettaglio il contenuto dei diritti in conflitto (quello alla scelta della donna e quella alla tutela della vita in formazione), ma è necessario che il potere giudiziario (che nel sistema americano ha il compito di verificare la legittimità delle leggi) si riservi quella di valutare nei singoli casi se la disciplina legislativa sia ragionevole e non penalizzi eccessivamente uno dei diritti in contrasto tra loro.

Un approccio di basso profilo

Una impostazione che sarebbe opportuno adottare se non si vuole correre il rischio di giungere a soluzioni giuridiche estreme e di fatto inapplicabili, quale sarebbe ad esempio quella di tornare a punire penalmente l’aborto in ogni fase della gestazione.

Fermo restando ovviamente il rispetto per le convinzioni personali, anche per quelle più radicali (in un senso e nell’altro), sul tema dell’interruzione della gravidanza e su tutti i temi di morale personale e familiare c’è forse bisogno (non solo negli Stati Uniti) di un approccio sia giuridico che politico “di basso profilo” che si confronti con le esigenze empiriche di una materia che tocca in profondità la vita e l’intimità delle persone.

E che magari sappia anche recuperare alcune delle concezioni più moderate relative sia alla tutela della vita umana che a quella della libertà individuale, proprie della tradizione giuridica e morale del passato.

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