Domenica 15 ottobre, come è noto, si sono svolte le elezioni politiche in Polonia che hanno avuto un “singolare” esito: il PiS (Diritto e Giustizia), partito di governo “sovranista ed euroscettico” è stato il primo partito, ma non ha ottenuto la maggioranza che invece ha ottenuto una coalizione “europeista”, capeggiata da Donald Tusk, già presidente del Consiglio europeo.
La Polonia tornata tra i “giusti”
La singolarità di questo voto non consiste tanto nel fatto che ci sia un partito più votato che non ha la maggioranza politica (non è una situazione inedita nell’esperienza europea), quanto piuttosto che ci sia stato un fisiologico avvicendamento politico a seguito di libere elezioni in un Paese narrato in questi anni come esempio paradigmatico di democrazia illiberale e di deriva autoritaria.
Naturalmente la narrazione è immediatamente cambiata e adesso la Polonia è tornata sulle consuete strade delle democrazie mature. Ciò ricorda nella memoria dello scrivente, le cronache politiche della Palermo della passata giovinezza dove il voto di interi quartieri era più o meno condizionato dai boss mafiosi sulla base del suo esito. E dunque un medesimo ambito territoriale era al contempo paradigma dell’incidenza criminale nel processo elettorale o simbolo di rinascita democratica.
In questo c’è, senza dubbio, un po’ di stantio folclore manicheo di certi nostri commentatori che viene sostanzialmente applicato a ogni evento politico ed elettorale. Quindi abbiamo partiti populisti che appena si alleano con i “giusti” divengono miracolosamente soggetti responsabili (basti vedere i commenti progressisti al Movimento 5 Stelle prima e dopo il primo governo Conte), o riforme istituzionali che prima mettono in pericolo la democrazia e poi invece sono votate per varare una nuova maggioranza di cui si entra a fare parte (si pensi alla posizione del centrosinistra sulla riduzione del numero dei parlamentari nella scorsa legislatura).
Le democrazie illiberali
Quello che invece qui interessa evidenziare è un altro elemento. Infatti, la qualificazione di democrazie illiberali di alcuni Paesi europei, Ungheria e Polonia, ha valicato i confini della cronaca politica e divenuto un must della dottrina nostra giuspubblicistica. Sono innumerevoli i saggi che definiscono questi Paesi in tale maniera e vi è stata una teorizzazione delle democrazie illiberali, definite come sistemi in cui si svolgono elezioni, più o meno regolari, ma che mettono in tensione o violano i diritti di libertà e/o gli organi di garanzia, con particolare riferimento alle istanze giurisdizionali (magistrature e corti costituzionali).
Ciò che non ha convinto del tutto in queste analisi, è stata, per l’appunto, forse una sua eccessiva esagerazione, giungendo talvolta ad aversi la quasi piena equipollenza con esperienze ordinamentali che sembrano obiettivamente assai lontane, come ad esempio la Russia e la Turchia, e che presentano significativi profili di repressione del dissenso (uccisioni sospette di oppositori e giornalisti; processi penali ai dissidenti; incarcerazioni di giornalisti; chiusure di giornali; epurazioni di militari, giudici e pubblici dipendenti ecc.) e di modalità concrete di svolgimento della vita pubblica che mettevano in dubbio sull’autenticità dell’espressione del voto.
Naturalmente, la qualità democratica e liberale di un ordinamento può conoscere infinite sfumature e non si può ignorare le criticità di certe esperienze ordinamentali che hanno posto in tensione alcune tipiche figura di organi di garanzia, senza per questo giungere a conclusioni paradossali e che il voto polacco sostanzialmente smentisce.
Le “ademocrazie liberali”
Sembra piuttosto che vi sia un altro profilo della questione della qualità democratica e liberale degli ordinamenti che sia stato invece sottovalutato e di cui, forse, i casi di Polonia e Ungheria erano una spia.
Si fa riferimento alla crescente compressione dello spazio democratico nel continente europeo a favore di istanze tecnocratiche, siano esse le burocrazie comunitarie siano invece i diversi plessi giurisdizionali, nazionali o sovranazionali. In tal senso sembra in qualche misura fisiologico che giovani democrazie orientali esaltino l’elemento democratico dopo che per lunghi decenni questo fosse completamente annullato.
Più in generale si potrebbe ritenere che se sussiste negli odierni ordinamenti costituzionali la tematica delle democrazie illiberali e che tale profilo può riguardare anche ordinamenti dell’Unione Europea, la quale peraltro da qualche anno pubblica una relazione comparata sullo stato dello stato di diritto, più precisamente della Rule of Law, in tutti i Paesi membri, potrebbe anche sussistere la tematica delle “ademocrazie liberali”, cioè di ordinamenti in cui è l’elemento democratico ad essere messo in crisi dalle istanze di garanzia.
Ovviamente, ci si deve intendere e occorre non commettere il medesimo errore compiuto da qualcuno ed estremizzare le conclusioni. Si vuole soltanto dire che la verifica dello stato di salute dei nostri ordinamenti costituzionali andrebbe forse svolta a 360 gradi e non solo ricercare le misure legislative, amministrative, giurisdizionali o di altra natura che possono determinare criticità sul piano delle garanzie costituzionali e delle libertà, ma anche le misure che vadano in senso contrario, riducendo lo spazio effettivo di concreto svolgimento della sovranità popolare.
Si tratta, in definitiva, di valutare sempre il reale e concreto equilibrio dei poteri per verificarne l’effettivo stato, potendovi avere asimmetrie o squilibri che alterano il regolare assetto istituzionale.
In particolare, è noto che il voto politico talvolta rischia di subire un ridimensionamento sulla definizione degli orientamenti politici, anche attraverso l’imposizione di limiti e vincoli giuridici e finanziari che riducono notevolmente gli effettivi spazi di indirizzo politico.
Ciò probabilmente dipende dalla complessità e immediatezza delle società contemporanee e dalla pervasività mediatica che spesso fanno apparire anacronistici i tempi decisionali delle assemblee elettive di ogni livello territoriale e tardivamente inefficaci le loro soluzioni, soprattutto delle nuove esigenze sociali facilitate dalle notevoli potenzialità tecnologiche che rendono sempre più possibili cose prima impensabili.
Giurisprudenza creativa
È, difatti, assai vivo in dottrina il dibattito sul rapporto tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, con una tendenza sempre più prevalente di individuare nel diritto giurisprudenziale la fonte del diritto più idonea a governare la complessità contemporanea, assumendo per scontata la natura creativa della giurisprudenza almeno sul piano effettuale. Anche se poi in ultima istanza è il piano che conta maggiormente, perché serve a poco negare sul piano teorico la giurisprudenza come fonte del diritto, se poi se ne approva ogni operazione interpretativa che cela sostanzialmente l’esercizio di una funzione normativa.
È possibile quindi che ciò sia in parte inevitabile. Ma se anche così fosse, siamo in grado di ritrovare nella tradizione giuspubblicistica più autorevole, le ricette per inquadrare questo fenomeno in un contesto ordinamentale democratico, nel quale la volontà popolare resti il principale, se non l’esclusivo, fattore di orientamento politico.
Separazione dei poteri
Al riguardo, se la classica tripartizione dei poteri di Montesquieu sembra non corrispondere più al concreto funzionamento dei sistemi istituzionali contemporanei, poiché la normazione è principalmente svolta dal potere esecutivo (si pensi alla prevalenza della decretazione di urgenza e di quella legislativa nell’esperienza italiana) e da quello giurisdizionale (si pensi, appunto, al ruolo creativo della giurisprudenza), può venire in soccorso la teoria della separazione dei poteri ripartita in funzioni elaborata dal Crisafulli.
L’illustre autore distingueva tra il Disporre e il Provvedere, indicando che il Disporre (una norma) dovesse essere esclusivo dominio del circuito democratico, cioè di quei poteri che trovano, direttamente o indirettamente, la loro legittimazione nell’espressione del voto popolare, e che il Provvedere invece dovesse appartenere al circuito tecnico, i cui componenti fossero cioè selezionati, tramite concorso, sulla base delle loro capacità ed attitudini, poiché la loro funzione non aveva natura normativa bensì attuativa e/o applicativa. È uno schema generale che si ritiene mantenga una sua validità anche oggi e che può ben sposarsi con una maggiore articolazione delle attività dei tre canonici poteri.
In altri termini, lo schema crisafulliano può ben prevedere anche un ruolo normativo svolto dalla giurisprudenza, purché questa abbia una legittimazione democratica, diretta o indiretta, in quanto in un ordinamento costituzionale liberaldemocratico le regole di diritto devono essere poste da coloro che rappresentano, (o che comunque sono espressione della), della volontà popolare.
L’alterazione antidemocratica
L’alterazione dello schema, in direzione antidemocratica, avviene invece quando un soggetto appartenente al circuito tecnico svolga una funzione normativa. D’altronde, l’esperienza statunitense testimonia la validità di questo schema, basti pensare alla legittimazione democratica, diretta o indiretta, che comunque hanno gli organi giurisdizionali, a partire dalla Corte Suprema, i cui membri, come è noto, sono tutti nominati a vita dal presidente degli Stati Uniti e devono ottenere la ratifica del Senato.
Si comprende come non sia possibile trapiantare quel sistema istituzionale negli ordinamenti continentali, ed in quello italiano, in particolare. Ma se si vuole mantenersi fedeli alla migliore tradizione del costituzionalismo liberaldemocratico il problema va affrontato e risolto se si dovesse confermare questa tendenza del ruolo creativo delle corti supreme e delle corti costituzionali, oppure occorrerà ripristinare i tradizionali confini di attribuzione dei poteri.
In ogni caso, sembra opportuno arricchire la prospettiva della tematica della qualità delle democrazie liberali, indagando non solo il profilo di una loro deriva illiberale, ma anche di quella di una loro involuzione democratica, senza comunque mai farsi guidare da approcci pregiudizialmente ideologici che spesso conducono a conclusioni sopra le righe e che spesso, come dicevamo sopra, poi la realtà smentisce.